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lunedì 21 ottobre 2019

Evo Morales vince il primo turno presidenziale in Bolivia, mentre il Cile del liberale Piñera è travolto dalle proteste di piazza. Articolo di Luca Bagatin

Con il 45,28% dei voti (ottenendo 64 deputati e 19 senatori), il Presidente socialista della Bolivia Evo Morales si assicura la vittoria al primo turno delle elezioni presidenziali, che si sono tenute domenica 20 ottobre.
Al secondo posto Carlos Mesa, il candidato del Fronte Rivoluzionario di Sinistra, che ha ottenuto il 38,16% dei voti (54 deputati e 16 senatori) e andrà, assieme ad Evo Morales, al ballottaggio che si terrà il 15 dicembre prossimo. Al terzo posto, invece, il candidato democristiano di origine sudcoreana Chi Hyun Chiung, con il 8,77% (9 deputati, nessun senatore) ed al quarto il candidato liberale del partito “Democratas” Oscar Ortiz, con il 4,41% (3 deputati 1 senatore).
Nonostante il discreto risultato di Mesa, candidato di centrosinistra e Presidente della Bolivia per un breve periodo – dal 2003 al 2005 - il Presidente Morales, sostenuto dal Movimento al Socialismo, di ispirazione Socialista del XXI Secolo, mantiene saldo il primo posto.
Leader fiero delle sue origini indigene di etnia aymara, è Presidente della Bolivia dal 2006 ed è riuscito a portare il Paese ad essere uno fra i più avanzati al mondo
E ciò è stato possibile attraverso l'uscita del Paese dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e attraverso un modello produttivo economico comunitario, fondato sulla nazionalizzazione delle risorse naturali, oltre che delle industrie energetiche e strategiche.
E' così che la Bolivia - oltre ad aver investito in programmi sociali ed educativi all'avanguardia - ha aumentato di nove volte i proventi delle esportazioni nazionali e dichiarato un suprlus fiscale, accumulando 15,5 milioni di dollari nelle riserve internazionali. Il PIL del Paese si attesta sempre a circa il 5% annuo, con una bassa inflazione stimata attorno al 3,5%, su base annuale.
Politiche diametralmente opposte rispetto a quelle del liberale argentino Macri, che sta portando il Paese al collasso (ma che probabilmente, stando ai sondaggi, sarà scalzato alle elezioni presidenziali del 27 ottobre dal candidato peronista Fernandez). Politiche diametralmente opposte rispetto a quelle del liberal-autoritario dell'Ecuador Lenin Moreno, che, dopo le proteste di piazza e la sua conseguente fuga dalla Capitale, ha ritirato il decreto di austerità; e diametralmente opposte rispetto a quelle del Premier liberale cileno Sebastan Piñera, che, a causa dell'aumento del costo della vita e del biglietto dei trasporti, deve fronteggiare proteste di piazza non dissimili rispetto a quelle di pochi giorni fa in Ecuador.
Le ricette liberali, dunque, non pagano. E lo vedremo molto presto anche nel Brasile del liberale Bolsonaro. Sono ricette in favore delle classi più abbienti; che indebitano il Paese; sottraggono risorse alla comunità; favoriscono gli interessi delle multinazionali statunitensi ed europee, a tutto svantaggio dell'economia nazionale.
L'America Latina Socialista del XXI Secolo – quella autenticamente popolare e populista - sta infatti tornando e vincendo. Nelle urne e nelle piazze.

Luca Bagatin

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