Pier Paolo Pasolini, nell'agosto 1975, sul più grande quotidiano italiano, "Il Corriere della Sera", pubblicò un lungo articolo nel quale inchiodò alle sue responsabilità politiche, morali, civili, il partito di governo, la DC.
Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti, come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità. questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. […]
L’immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo!), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro.
Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini italiani da tale Processo (oltre, si intende, alla fondatezza dei reati più sopra enunciati secondo una terminologia etica se non giuridica)?
Verrebbe rivelato ai cittadini italiani qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa) che cosa farsene di loro.
Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire (al di là del Processo e delle sue condanne penali) che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l’epoca di un certo «altro» potere.
Ma soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica.
Una volta condannati i nostri potenti democristiani (alla fucilazione, all’ergastolo, all’ammenda di una lira, cosa di cui qualsiasi cittadino infine si accontenterebbe) ogni confusione dovuta a una falsa e artificiale continuità del potere democristiano verrebbe vanificata. L’interruzione drammatica di tale continuità renderebbe al contrario chiaro a tutti non solo che un gruppo di corrotti, di inetti, di incapaci è stato democraticamente tolto di mezzo, ma soprattutto (ripeto) che un’epoca è finita e ne deve cominciare un’altra.
Se invece questi potenti resteranno ai loro posti di potere – magari scambiandoseli un’ennesima volta –, se cioè la Dc, e con essa, quindi, il paese, opteranno per la continuità, più o meno drammatizzata, non sarà mai chiaro, per esempio, il fatto che gli italiani oggi sono laici almeno nella misura in cui fino a ieri erano cattolici, oppure che i valori dello sviluppo economico hanno dissolto tutti i possibili valori delle economie precedenti (insieme a quelli specificatamente ideologici e religiosi), oppure ancora che il nuovo potere ha bisogno di un nuovo tipo di uomo.
Ora (o almeno così sembra a un intellettuale solo in mezzo a un bosco) gli osservatori politici italiani insistono colpevolmente a optare, in fondo, per la continuità democristiana: per adesso anche i comunisti. Gli osservatori borghesi indicano settorialmente, nel campo economico (e non dell’economia politica!!), le possibili soluzioni di quella che essi chiamano crisi; gli osservatori comunisti – insieme a tale indicazione, naturalmente più radicale e pur accettando come buone le intenzioni dei democristiani demandati alla continuità – lamentano il persistente anticomunismo.
Ma che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani? O addirittura chiedere loro qualcosa?
Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un’anima. Ciò l’abbiamo sempre saputo, e l’abbiamo anche sempre detto: ma non l’abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice: perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici. […]
Torniamo dunque al nostro Processo (metaforico): ma stavolta in relazione e in funzione della politica del Pci (o di un Psi ipoteticamente rinnovato da una sua «rivoluzione culturale»), che è l’unica che importa. Se, invece di fingere di accontentarsi delle parole dei «galantuomini della continuità», i comunisti e i socialisti decidessero di spezzare tale continuità intentando un Processo penale a Andreotti e a Fanfani, a Gava e a Restivo ecc. ecc., che cosa metterebbero in chiaro una volta per sempre di fronte alla propria coscienza? Una serie di fatti banali che portano a un fatto essenziale, e cioè:
Primo fatto banale: si presenterebbe, in tutta la sua estensione e profondità, ma anche in tutto il suo definitivo anacronismo, il quadro clerico-fascista in cui il malgoverno democristiano ha potuto essere attuato attraverso una serie di reati classici. Reati dunque non reati, in quanto consustanziali alla realtà del paese, e quindi (come quelli mussoliniani) perpetrati in fondo nel suo ambito e col suo consenso. Durante i primi venti anni del regime democristiano, si è governato un popolo storicamente incapace di dissentire: esattamente come durante il ventennio fascista, come durante l’Ottocento pontificio o borbonico, e addirittura come durante i secoli feudali.
Nel palazzo
Secondo fatto banale: la qualificazione
di «antifascista» (di cui insistono a gratificarsi uomini anche
autorevoli di sinistra, che in questo non si distinguono affatto dai
democristiani) diventa una sinonimia assurda, anzi, ridicola, di
antiborbonico o antifeudale…
Terzo fatto banale: un paese non più
clerico-fascista, e cioè un popolo non più religioso, non può non
ripercuotere la propria realtà nel «Palazzo», vanificandone i codici e
rendendo le manovre dei potenti degli automatismi pazzi (di cui son
complici anche gli oppositori).
Fatto essenziale: ciò che al contrario il
Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – è che il contesto
in cui governare non è più quello clerico-fascista, e che proprio nel
non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei
democristiani. Il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo –
che governare e amministrare bene non significa più governare e
amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al
nuovo potere.
Per esempio: i beni superflui in quantità
enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia
italiana, fatta di puro pane e miseria. Aver governato male significa
dunque non aver saputo far sì che i beni superflui fossero un fatto
(come oggettivamente dovrebbe essere) positivo: ma che, al contrario,
fossero un fatto corruttore, di selvaggia distruzione di valori, di
deterioramento antropologico, ecologico, civile.
Altro esempio: la democratizzazione
derivante dal consumo estremamente esteso dei beni (compresi, perché
no?, i beni superflui), ecco un’altra grande novità. Ebbene, l’aver
governato male significa non aver fatto sì che tale democratizzazione
fosse reale, viva: ma che, al contrario, fosse un orribile appiattimento
o un decentramento puramente enfatico (gestito in genere da illusi
progressisti).
Altro esempio ancora: la tolleranza, che
il nuovo potere ha elargito, per delle sue buone ragioni, è anch’essa
una grande novità. L’aver governato male – ancora una volta consiste nel
non aver fatto di tale tolleranza una conquista, ma di averla
trasformata nella peggiore intolleranza reale che si sia mai vista
(ossia la tolleranza di una maggioranza, resa sconfinata dalla sua nuova
«qualità» di «massa», che tollera, in realtà, solo le infrazioni che
fanno comodo a lei stessa).
Quindi, nella mia ansia didascalica,
insisto: governare bene o amministrare bene non significa più affatto
governare bene o amministrare bene rispetto al governare male o
all’amministrare male clerico-fascista (e quindi democristiano). La
moralità politica non consiste più nel confrontarsi con l’immoralità
clerico-fascista e magari col debellarla: cosa che i democristiani, in
quanto cristiani, hanno sempre detto, a parole, di voler fare. Di
conseguenza, se i comunisti – nelle giunte amministrative regionali,
provinciali e comunali – si limitassero ad attenersi a una simile
moralità politica, essi altro non sarebbero che i veri democristiani.
Ma – e questo è il punto – anche facendo
dei beni superflui, della democratizzazione consumistica e della falsa
tolleranza, qualcosa di avanzato, di vivo, di reale – anche in tal caso –
i comunisti altro non sarebbero che i veri democristiani. Perché?
Perché beni superflui, democratizzazione consumistica, tolleranza sono
fenomeni che caratterizzano il nuovo potere (il nuovo modo di
produzione) e tale nuovo potere (tale nuovo modo di produzione) è
capitalistico.
Bologna è in realtà un esempio di come avrebbe dovuto essere amministrata dai democristiani una città.
Ma è a questo punto che si ha il
«risvolto» del mio presente scritto (reso evidentemente romanzesco dalla
presenza di un Processo…).
Il «risvolto» consiste in questo: la
continuità democristiana, voluta in realtà da tutti indistintamente – in
barba alla terribile «crisi», da tutti, altrettanto indistintamente,
recepita e drammatizzata – in realtà non è possibile […]
Pier Paolo Pasolini
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