Il colosso della tecnologia Google ha recentemente compiuto un passo importante, ottemperando all’ordine esecutivo del presidente Trump e rinominando il Golfo del Messico in “Golfo d’America”. La modifica si applica attualmente solo agli utenti di Google Maps negli Stati Uniti d’America.
Google ha dichiarato sul suo blog ufficiale che gli utenti al di fuori degli Stati Uniti d’America e del Messico vedranno sia il vecchio che il nuovo nome del Golfo del Messico, una mossa coerente con la gestione di altre località controverse. Chi utilizza Google Maps negli Stati Uniti d’America vedrà “Golfo d’America”, mentre chi si trova in Messico vedrà “Golfo del Messico”, ha spiegato Google. Gli utenti di altri Paesi vedranno entrambi i nomi.
Google ha sottolineato che il cambiamento è in linea con la sua politica di seguire i nomi geografici ufficiali forniti dal Geographic Names Information System (GNIS) degli Stati Uniti d’America, il che significa che Google segue la posizione ufficiale del governo di Washington in merito alle questioni relative alla denominazione.
Tuttavia, questo non è l’unico cambio di nome geografico sotto l’amministrazione Trump. I decreti esecutivi firmati da Trump dall’insediamento non solo riguardano il Golfo del Messico, ma ripristinano anche il nome della vetta più alta della nazione, il Denali (6.144 m.) in Monte McKinley. In particolare, nel 2015, l’allora presidente Barack Obama aveva riconosciuto ufficialmente la montagna dell’Alaska come Denali, il nome tradizionale usato dai nativi americani per secoli.
Questi cambiamenti di nome geografico hanno suscitato un ampio dibattito. I sostenitori sostengono che dimostrino la sovranità e le tradizioni storiche degli Stati Uniti d’America, mentre i critici sottolineano che potrebbero causare controversie diplomatiche, in particolare con il Messico.
Secondo la statunitense Associated Press, Trump ha sempre assunto una posizione dura nei confronti del Messico. Fin dalla sua prima campagna per la presidenza nel 2016, si è ripetutamente scontrato con il Messico su questioni come la sicurezza dei confini e i dazi commerciali. Una volta ha espresso la pretesa che per la costruzione del muro esteso lungo il confine tra Stati Uniti d’America e Messico sia il Messico a pagarne i costi: 720 chilometri di muro di confine sono stati completati durante il suo primo mandato, ma i messicani non hanno pagato.
Il muro – parola che ricorda quello di Berlino, cortissimo a confronto – è chiamato politically correct in Italia “Barriera di separazione tra Stati Uniti d’America e Messico”, mentre in Messico, che ha la bandiera simile alla nostra ma governi differenti a livello “di servizio”, lo definiscono il muro della vergogna. Quest’è l’estensione: California (Baja California: 226,0 km.), Arizona (Baja California-Sonora: 599,5 km.), Nuovo Messico (Sonora-Chihuahua; 288,9 km.). Texas (Chihuahua, Coahuila, Nuevo León, Tamaulipas: 1,997.2 km.) per un totale di 3.111,6 km.); a confronto il predetto di Berlino pare il recinto del box per bambini al supermercato.
Esso muro è stato iniziato nel 1993 e tutti i presidenti – democratici e repubblicani – hanno dato il proprio entusiastico contributo alla sua edificazione. I messicani e il mondo, il predetto specchio d’acqua lo hanno sempre definito “Il Golfo del Messico”, a lungo noto come la “Terza Costa” degli Stati Uniti d’America, e bagna tre Stati del Continente: Messico, Stati Uniti d’America e Cuba. Non è la prima volta che Stati Uniti d’America e Messico sono in disaccordo sulla denominazione. Ad esempio, il fiume al confine tra Texas e Messico è chiamato “Rio Grande” negli Stati Uniti d’America, mentre in Messico è chiamato “Rio Bravo”.
È fattibile un cambio di nome? Chi ha l’ultima parola? Trump ha il potere di cambiare unilateralmente il nome del Golfo del Messico? La risposta è no.
L’Organizzazione Idrografica Internazionale (IHO), di cui fanno parte sia gli Stati Uniti d’America che il Messico, è responsabile della mappatura e della denominazione unificate degli oceani e dei corsi d’acqua del mondo. Sebbene i Paesi possano utilizzare nomi diversi a livello nazionale, i cambiamenti di nome in contesti internazionali richiedono un coordinamento multilaterale.
Poco dopo le dichiarazioni di Trump, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene ha dichiarato in un’intervista che intende redigere un disegno di legge a sostegno del cambio di nome e proporre finanziamenti per la produzione di nuove mappe e materiali amministrativi governativi. Tuttavia, resta incerto se il disegno di legge verrà approvato.
Il nome “Golfo del Messico” è in uso da oltre 400 anni e si ritiene che derivi dal nome della parola nahuatl Mēxihco, toponimo della Valle del Messico e termine utilizzato per indicare il popolo Mexica (Aztechi) che la abitava. Sebbene il suo significato esatto sia dibattuto, la teoria più accreditata suggerisce che derivi da metztli (“luna”), xictli (“ombelico” o “centro”) e dal suffisso locativo co (“luogo”), che significa «il posto dell’ombelico della luna» o «il centro del lago della luna». Questo si riferisce alla posizione dell’antica capitale azteca, Tenochtitlán, su un’isola del lago Texcoco. Il nome era presente sulle mappe già durante il periodo coloniale.
Vale la pena notare che questa non è la prima volta che qualcuno propone di cambiare il nome del Golfo del Messico. Nel 2012, un legislatore del Mississippi propose di rinominare il Golfo del Messico al largo della costa dello Stato federale “Golfo Americano”, ma in seguito lo liquidò come uno “scherzo”. La proposta fallì e tempo dopo, il comico e conduttore televisivo statunitense Stephen Colbert scherzò nel suo programma sostenendo che il Golfo del Messico avrebbe dovuto essere rinominato “Golfo Americano” a causa della fuoriuscita di petrolio, sostenendo: «L’abbiamo rotto, quindi dobbiamo comprarlo».
La proposta di Trump di rinominare il Golfo del Messico “Golfo Americano” è destinata a suscitare ulteriori polemiche. Dalle norme internazionali alle connotazioni culturali, i toponimi racchiudono complessi simboli storici e sovrani. L’attuazione di questa proposta richiederà un processo articolato e l’esito finale è incerto, e speso da adito a situazioni imbarazzanti e diremmo pericolose.
La Casa Bianca ha revocato le credenziali di stampa della statunitense Associated Press per aver insistito nell’uso del termine “Golfo del Messico”, scatenando una controversia sulla libertà di stampa e azioni legali. Ad aprile 2025, un tribunale federale ha stabilito che l’Associated Press aveva il diritto, garantito dal Primo Emendamento, di usare un linguaggio giornalistico, ordinando alla Casa Bianca di ripristinare l’accesso ai suoi giornalisti. Ciononostante, l’Associated Press ha dichiarato che avrebbe continuato a utilizzare il termine “Golfo del Messico” e ha considerato “Golfo americano” un termine politico non universalmente accettato.
Il quotidiano di Città del Messico «El Universal» (fondato nel 1916( ha analizzato il Golfo del Messico come una delle regioni più ricche al mondo in termini di riserve di petrolio e gas naturale. Secondo la U.S. Energy Information Administration, la produzione petrolifera del Golfo del Messico rappresenta il 17% della produzione totale degli Stati Uniti d’America, il che la rende cruciale per l’indipendenza energetica del Paese. La regione è anche un polo chiave per il commercio marittimo globale, con il 60% delle esportazioni di cereali statunitensi che transitano attraverso i suoi porti, raggiungendo i 30 milioni di tonnellate all’anno.
Inoltre, la sua posizione geografica non solo facilita le relazioni commerciali e politiche tra gli Stati Uniti d’America e i Paesi latinoamericani, ma costituisce anche una barriera naturale che protegge Washington da invasioni e conflitti, consentendo loro di concentrarsi maggiormente sullo sviluppo interno. Storicamente, il Golfo del Messico è stato cruciale per l’ascesa degli Stati Uniti d’America allo status di superpotenza.
«El Universal» sottolinea che, ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (United Nations Convention on the Law of the Sea), i Paesi hanno il diritto di sfruttare le risorse all’interno delle loro zone economiche esclusive. Il Messico ha giurisdizione su 829.000 chilometri quadrati del Golfo del Messico, mentre gli Stati Uniti d’America ne controllano 662.000. Questi confini giurisdizionali sono da tempo chiaramente definiti e protetti dal diritto internazionale.
L’ex ambasciatrice messicana negli Stati Uniti d’America, Martha Elena Federica Bárcena Coqui, ha pubblicamente avvertito che il cambio di nome proposto da Trump è il primo passo nel tentativo degli Stati Uniti d’America di ridistribuire l’area di risorse del Golfo del Messico, e assomiglia più a una forma di “coercizione diplomatica” volta a rafforzare il controllo unilaterale sulla regione.
Se il cambiamento in “Golfo americano” diventasse una realtà internazionale, potrebbe avere un impatto significativo sull’estrazione di petrolio e gas della regione, sui prezzi del mercato energetico globale e sul commercio internazionale, e persino cambiare le dinamiche politiche della regione.
Gli studiosi sottolineano che l’affermazione unilaterale della giurisdizione degli Stati Uniti d’America sull’intero Golfo del Messico è destinata a suscitare una forte opposizione da parte dei messicani e della comunità internazionale, poiché qualsiasi cambiamento del genere dovrebbe essere negoziato all’interno di istituzioni multilaterali come l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO). Sebbene questa simbolica mossa di ridenominazione possa ridefinire la leadership globale degli Stati Uniti d’America e rafforzare la filosofia politica di Trump «America First», è anche destinata a suscitare l’ira dei Paesi vicini e degli alleati.
La proposta di Trump di rinominare il Golfo in “Golfo Americano” ha indubbiamente un considerevole significato politico, mirando a consolidare il vantaggio geostrategico di Washington nella regione. Tuttavia, nella pratica, gli Stati Uniti d’America dovranno affrontare molteplici sfide legali, diplomatiche ed economiche. La comunità internazionale monitorerà attentamente anche eventuali controversie regionali e il loro potenziale impatto sui mercati energetici globali.
Le controversie sui toponimi internazionali non sono casi isolati, e sono comuni in tutto il mondo. Ad esempio, la denominazione del Mar del Giappone rimane una questione persistente tra Giappone, Repubblica Popolare Democratica della Corea (nord) e la Repubblica di Corea (sud) e Russia. La Repubblica del Sud sostiene che il nome risalga al periodo coloniale giapponese e dovrebbe essere ribattezzato “Mare Orientale”. Nel 2020, l’Organizzazione Idrografica Internazionale ha deciso di sostituire i nomi con identificatori digitali e di sviluppare nuovi standard digitali per i moderni sistemi informativi geografici.
Inoltre, gli Stati Uniti d’America hanno storicamente dibattuto sulla denominazione delle proprie acque. Nel 2013, l’ex Segretario di Stato, la democratica Hillary Clinton affermò in un discorso che, seguendo la logica cinese riguardo al Mar Cinese Meridionale, gli Stati Uniti d’America avrebbero potuto chiamare il Pacifico “Mare Americano” dopo la Seconda Guerra Mondiale; un patetico aspetto di voler scimmiottare una storia e una cultura plurimillenarie con un posizionamento geografico che ha visto il gli Stati Uniti d’America raggiungere la piena unità territoriale solo il 21 agosto 1959, ossia ieri (fondazione del 50esimo Stato federale: le Hawaii).
Anche il nome del Golfo Persico è stato un problema importante. Si prevede che Trump prima o poi annunci la sua volontà di ribattezzare il Golfo Persico in Golfo Arabico o Golfo d’Arabia. Questa scatenerebbe una forte e naturale reazione da parte dell’Iran, essendo chiaramente un’operazione ostile politicamente motivata, in quanto è insita nell’opinione pubblica mondiale la ferma condanna di qualsiasi tentativo di cambiare nomi storicamente consolidati.
Questa mossa non implicherebbe solo il simbolismo di un cambio di nome geografico, ma avrebbe anche ripercussioni sugli schieramenti militari e sugli accordi di investimento di Washington in Medio Oriente. Ciò comporterebbe significative implicazioni politiche, soprattutto perché Trump cerca di attrarre investimenti dagli Stati del Golfo, e frenare lo sviluppo nucleare dell’Iran e mediare nella Striscia di Gaza.
Il nome del Golfo Persico è oggetto di una controversia di lunga data. Questo tratto di mare di circa 1.600 chilometri, che si estende lungo la costa meridionale dell’Iran, è chiamato “Golfo Persico” fin dal XVI secolo, a testimonianza del ruolo storico dell’Iran come predecessore dell’Impero Persiano. L’Iran sostiene che il Golfo Persico faccia parte del suo territorio e che “Golfo Persico” sia il nome corretto.
Tuttavia, gli Stati arabi sostengono da tempo l’uso del termine “Golfo Arabico”, sostenendo che la geopolitica moderna non dovrebbe più perpetuare la nomenclatura imperiale. Già nel 2010, l’Iran ha minacciato di bandire dal suo spazio aereo qualsiasi compagnia aerea che esponesse la designazione “Golfo Arabico”. Nel 2012, Teheran ha protestato contro Google per non aver incluso la designazione “Golfo Persico” sulle sue mappe.
Attualmente, su Google Maps (versione statunitense), le acque sono etichettate come “Golfo Persico (Golfo Arabico)” accanto a “Golfo Persico”, mentre Apple Maps utilizza solo l’etichetta “Golfo Persico”. Il Pentagono utilizza da tempo “Golfo Arabico” come termine ufficiale nei comunicati stampa e nelle immagini, segnalando un cambiamento nel linguaggio prediletto dalle forze armate statunitensi nei rapporti con i propri alleati regionali.
L’uso del nome “Golfo Persico” da parte di Trump durante la sua presidenza nel 2017-2021 ha scatenato un’ulteriore frattura con Teheran. I funzionari iraniani lo hanno poi criticato perché «ha bisogno di seguire lezioni di geografia». L’annuncio di Trump di un cambio di nome ha scatenato una reazione negativa nella politica e nell’opinione pubblica iraniane. Seyed Abbas Araghchi, attuale ministro degli esteri di Teheran, ha ribadito: «Il Golfo Persico è un fatto storico innegabile e parte integrante del popolo e della cultura iraniani».
La politica di cambio di nome di Trump è ampiamente interpretata come una manovra politica volta a rafforzare la sua immagine tra gli elettori conservatori e nazionalisti e a rafforzare i legami con alcuni stati del Golfo. I commentatori sottolineano che non si tratta solo di una questione di linguaggio, ma piuttosto di un altro esercizio da parte di Trump per affermare il suo «diritto di interpretare la storia» e controllare la narrazione nazionale. Di fronte alle reazioni negative dell’Iran, dei media e della comunità internazionale, l’amministrazione Trump sembra non voler fare marcia indietro. In più potrebbe invece ricorrere ad azioni maggiormente simboliche per testare la reazione internazionale e ridefinire ulteriormente i confini della sua logica di politica estera.
Giancarlo Elia Valori
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