Era il 15 ottobre 1987, quando il Presidente del
Burkina Faso – Thomas Sankara – fu ucciso, nell'ambito del colpo
di Stato organizzato dal suo ex compagno d'armi Blaise Campaoré, con
l'appoggio degli USA, della Francia e dei militari liberiani.
Sankara fu e rimane un
simbolo per i popoli del Terzo Mondo africani. Un simbolo panafricano
di riscatto e emancipazione.
Burkina Faso, significa,
letteralmente, “paese degli uomini integri”. Così come integro
fu sempre Sankara, salito al potere a soli 35 anni, attraverso una
rivoluzione senza spargimento di sangue, esattamente come avvenne in
Libia, con Mu'Ammar Gheddafi.
Sankara nacque il 21
dicembre 1949 da una famiglia povera burkinabé. Il suo sogno, sin da
bambino, fu che il suo popolo potesse affrancarsi dal neocolonialismo
e che tutti potessero vivere in pace, con due pasti al giorno.
Per potersi mantenere
entrò nell'esercito partecipando ad un concorso per accedere alla
Scuola militare Pryatanée di Kadiogo, superando il concorso nel
1966.
Nel 1978 conobbe colui il
quale, tempo dopo, l'avrebbe assassinato, ovvero Blaise Campaoré e
con lui costituì il Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti al fine
di rovesciare il regime corrotto dell'Alto Volta.
Nel novembre 1980, senza
alcun spargimento di sangue, prese il potere il colonnello Sayé
Zerbo e Sankara, vista l'alta popolarità di cui godeva
nell'esercito, fu nominato Segretario di Stato per l'Informazione.
Purtuttavia, in aperto contrasto con il governo che egli scoprì
essere corrotto tanto quanto i precedenti, si dimise dall'incarico
nell'aprile 1982 e sarà arrestato assieme agli altri componenti del
Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti.
Un successivo colpo di
Stato porterà al potere Jean-Baptiste Ouédraogo che, oltre a
liberare Sankara ed i suoi compagni, lo nominerà Primo Ministro.
Da quel momento Sankara
inizierà ad applicare sanzioni contro i funzionari pubblici
fannulloni, eliminando alcuni vantaggi dei dipendenti pubblici ed
iniziando a viaggiare per i Paesi del Terzo Mondo intessendo sempre
più fitte relazioni, in particolare con la Libia di Mu'Ammar
Gheddafi.
Tornato in patria,
Sankara trovò la sua abitazione circondata da carri armati condotti
da uomini al soldo del governo francese, il quale temeva l'impulso
rivoluzionario del governo da lui presieduto. Egli fu così arrestato
e detenuto presso un campo militare.
Grazie ad una
sollevazione popolare lui ed i suoi compagni saranno liberati il 30
maggio 1983 ed inizieranno a progettare il colpo di Stato dell'agosto
successivo, che lo porterà finalmente alla Presidenza della
Repubblica con un programma ambiziosissimo, che riuscirà purtroppo
ad attuare solo in parte a causa del suo assassinio, nell'ottobre
1987.
Un programma che
consistette in: una massiccia opera di vaccinazione che permise la
riduzione di mortalità infantile in Burkina Faso; in una massiccia
opera di rimboschimento al fine di far rivivere l'arido Sahel; nella
riforma agraria che permise di ridistribuire le terre ai contadini;
nella politica di soppressione delle imposte agricole; nelle
importantissime politiche di liberazione femminile che proibirono la
pratica barbarica dell'infibulazione, nell'abolizione della
poligamia, nella partecipazione delle donne alla vita politica del
Paese attraverso l'istituzione dell'Unione delle Donne del Burkina,
nell'istituzione della giornata dei mariti al mercato; in un
programma di riduzione delle spese e del processo di autarchia
ribattezzato da Sankara “produciamo quello che consumiamo”, al
fine di abolire progressivamente la dipendenza dalle importazioni con
l'estero; la costruzione di apposite dighe, pozzi e bacini idrici che
garantissero a tutti l'accesso all'acqua e la garanzia di due pasti
al giorno per tutti i burkinabé; la costruzione di un campo sportivo
per ogni villaggio al fine di garantire a tutti il diritto
all'attività fisica e ricreativa; la lotta alla corruzione pubblica
e la richiesta di Sankara ai Potenti della Terra di cancellare il
debito ai Paesi del Terzo Mondo, in quanto frutto del colonialismo e
del neocolonialismo e dunque all'origine del sottosviluppo di tali
Paesi; la proposta di disarmo progressivo di tutti i Paesi africani
in modo che questi non combattano più fra loro, ma lottino per
l'unità e l'emancipazione dei popoli africani; lo sforzo di far
partecipare tutti alla vita pubblica del Paese, attraverso appositi
comitati rivoluzionari e una radio attraverso la quale chiunque
potesse fare proposte o criticare l'operato del governo.
Programma ambizioso e in
parte realizzato sino a quell'ottobre 1987 nel quale sarà ucciso -
con un colpo di revolver - dal suo amico di lotte, il quale prenderà
così il potere e annullerà molte delle riforme portate avanti da
Sankara, facendo peraltro tornare il Burkina Faso preda della
corruzione e dei potentati economici e politici stranieri.
Un sogno, quello della
Rivoluzione burkinabé, dunque tragicamente interrotto. Un sogno che
fu sostenuto peraltro anche dal Partito Radicale di Marco Pannella
che lanciò in quegli anni una campagna contro lo sterminio per fame
nei Paesi del Terzo Mondo e che porterà lo stesso Presidente Thomas
Sakara ad iscriversi al loro partito.
La vita e l'esempio di
Sankara, portato avanti dall'attuale Presidente del
Burkina Faso, Ibrahim Traoré, che combatte tanto contro l'imperialismo neocoloniale francese, che contro il terrorismo islamista, ci spiegano, per moltissimi versi, le vere cause del fenomeno
migratorio di oggi, che è frutto del capitalismo, del colonialismo e
del neocolonialismo dei governi dei Paesi ricchi europei e
statunitensi. I quali continuano a invadere e destabilizzare Paesi
sovrani, a sanzionarli, a vendere loro armi. E obbligano i Paesi
poveri ad indebitarsi, attraverso le criminali politiche della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, già ampiamente
denunciate da Sankara stesso.
Sankara rimane un simbolo
per i popoli liberi e sue lotte, che sono ancora oggi le lotte dei
panafricani, meritano rispetto e concreta attuazione. Affinché il
suo sacrificio eroico non sia stato vano.
Oggi, gli italiani, lo
dimostrano anche le recenti elezioni amministrative, non vanno più a
votare, per la gran parte.
Non si riconoscono,
infatti, in contenitori pressoché uguali e sempre più uguali, con
il passare degli anni.
Contenutori volti a
distruggere i diritti dei lavoratori; lo stato sociale; la sanità
pubblica; a non fare nulla per i diritti degli anziani; delle donne e
dei bambini; a non far nulla contro le baby gang e mantenere l'ordine
pubblico.
Contenitori lontani tanto
a livello nazionale, quanto a livello locale, dalle necessità dei cittadini e della comunità.
Contenitori che
preferiscono piegarsi ai desiderata, sempre più sconsiderati e
guerrafondai, di Bruxelles e Washington. Che fanno di tutto per
distruggere un Occidente alla deriva.
La storia che racconterò
e che ho già raccontato in altri articoli e video, riassumendola, è
quella di un politico onesto, di un servitore della comunità,
attraverso lo Stato democratico italiano di una Repubblica che non
esiste più.
Quella Prima Repubblica,
nella quale, governavano partiti di autentico Centro-Sinistra. E non
gli eredi degli opposti estremismi, approdati al liberal capitalismo
assoluto e al fondamentalismo senza costrutto, che si dicono
“riformisti” senza esserlo mai stati.
E' la storia di un
socialista democratico, raccontata in primis da Mattia Granata, nel
suo “Roberto Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, edito
da Rubbettino, con il contributo del Centro per la cultura d'impresa.
Di Roberto Tremelloni
(1900 – 1987), che ricoprì i Ministeri dell'Industria e del
Commercio; del Tesoro, delle Finanze e della Difesa, Enrico Mattei
ebbe a scrivere, a proposito del suo modo di fare politica:
“Socialista genuino, uomo di cultura moderna, l'On. Tremelloni
ha indicato, senza demagogia, quello che un governo socialista deve
fare (…), un dirigista, certo, ma un dirigista serio, non un
facilone né un demagogo”.
Tremelloni nacque a
Milano, in una famiglia povera e questo ha formato profondamente il
suo carattere e il suo modo retto di fare politica.
Come riporta Granata, nel
suo saggio, Tremelloni scrisse di sé: “Mi sembra molto
importante, nel lungo andare della mia vita, il fatto di essere nato
povero. Ciò ha giovato alla formazione del mio carattere. Io
benedico spesso di essere stato allevato in un ambiente di difficoltà
e ristrettezze materiali. Benedico questa scuola perché le
difficoltà e le ristrettezze non mi fanno più paura. Perché lo
sforzo per superarle diventa abitudine”.
Economista serio, fuori
da ogni ideologismo e dogmatismo e sempre dalla parte della
collettività, Tremelloni riteneva che fosse “Il proletariato
che può e deve alzare la bandiera dello sviluppo economico
nell'interesse di tutta la collettività”.
La sua politica fu sempre
in contrasto con quella dei conservatori di ogni colore “anche
se sono mascherati da etichette progressiste dei più vari movimenti
di destra e sinistra”, affermava.
Da adolescente aderì al
Partito Repubblicano Italiano di mazziniana e risorgimentale memoria,
così come Pietro Nenni. Partito della trasparenza e della
rettitudine per eccellenza, oltre che collocato all'estrema sinistra
democratica e laica.
Tremelloni si definiva,
già da allora, un risorgimentale fabiano, un umanitarista socialista
mazziniano e patriottico e tali idee si rafforzarono anche grazie
all'amicizia con il liberalsocialista Carlo Rosselli e il padre del
Socialismo italiano, Filippo Turati.
Idee che guardavano a un
libero mercato regolato a beneficio della collettività e non
dell'egoismo privato. Oltre ogni visione classista di matrice
marxista-leninista e contro ogni autarchismo di matrice fascista, che
Tremelloni avversò con tutto sé stesso, in particolare quando fu
chiamato ai suoi primi incarichi di governo, nella ricostruzione
dell'Italia, nel dopoguerra.
Un socialismo
municipalista e gradualista, il suo, che lo porterà a sostenere,
così come il liberalsocialista e amico Ernesto Rossi, la lotta ai
monopoli e la promozione della nazionalizzazione dei settori chiave
dell'economia, a partire dal settore energetico.
Un socialismo che lo farà
approdare, nel 1922, al Partito Socialista Unitario di Turati e
Treves e, nel dopoguerra, al Partito Socialista di Unità Proletaria
di Nenni e al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani di Giuseppe
Saragat, successivamente Partito Socialista Unitario e, infine,
Partito Socialista Democratico Italiano.
Si occupò, in gioventù,
di giornalismo, sia sportivo che di cronaca e, nel 1919 fondò, con
il fratello Attilio, la Casa Editrice Aracne e diresse la rivista
della Confederazione Generale Del Lavoro, “Battaglie sindacali”,
fino alla soppressione, durante il fascismo.
Nel 1926 fondò,
peraltro, con Rosselli e Pietro Nenni, la rivista socialista “Quarto
Stato”, anch'essa presto soppressa dal regime.
Ma la sua vera passione
sarà sempre l'economia. Laureatosi nel 1924 in Scienze economiche,
nel 1930, iniziò ad insegnare Economia politica presso l'Università
di Ginevra.
Furono quelli gli anni in
cui si dedicò maggiormente agli studi economici e meno all'impegno
politico, purtuttavia rimase sempre un antifascista della prima ora,
non mancando mai di rivolgere critiche alla politica economica del
governo mussoliniano, come fa presente il saggio di Granata.
Egli fu, peraltro, fra i
fondatori del giornale economico “Il Sole 24 Ore”.
Nel 1931, a Milano, fondò
il GAR, ovvero il Gruppo Amici della Razionalizzazione, ovvero una
sorta di centro studi economico, fortemente critico nei confronti
dell'economia autarchica del regime.
Riuscì, ad ogni modo, a
sfuggire alla condanna al confino, grazie al supporto della rete
antifascista.
Nel dopoguerra,
Tremelloni tornerà ad essere politicamente attivo, sebbene – come
ricorda Mattia Granata - considerasse gran parte dei programmi dei
partiti italiani piuttosto vaghi, nebulosi, poco concreti. Alla
ricerca più del consenso o di non perdere consensi, piuttosto che
fondati sulla ricostruzione del Paese, in favore della comunità.
Già allora egli mostrava
il suo carattere pragmatico e non ideologico e, con questo spirito,
contribuirà, nel 1947, a dare vita, con Saragat, al Partito
Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).
Partito di sinistra
laica, socialista democratico e oltre i blocchi contrapposti DC –
PCI.
All'indomani della
Liberazione, fu incaricato di ricoprire il ruolo di Vicepresidente
del Consiglio Industriale per l’Alta Italia, ove si occupò di
gestire e riattivare le strutture dell'economia produttiva.
E' in questo ruolo che
ebbe modo di applicare la sua visione economica, basata sulla
razionalizzazione della produzione, contro ogni forma di parassitismo
e di spreco di danaro e energie pubbliche, oltre che contro ogni
forma di protezionismo economico.
Ampliamento dei mercati e
produzione economica di massa di beni utili e non voluttuari, erano
le sue linee guida, per garantire una diffusa prosperità.
Il tutto, secondo
Tremelloni, era possibile attraverso un “ordinato e funzionante”
intervento pubblico nell'economia del Paese.
In questo senso, fu un
sostenitore della nazionalizzazione di ferrovie, compagnie
telefoniche e elettriche; dell'abolizione di ogni forma di monopolio
e della promozione della meritocrazia in ambito occupazionale.
La politica di
Tremelloni, in ambito economico, che era il cuore del programma del
socialismo democratico dell'epoca, rifuggiva, dunque, da ogni forma
di collettivismo classista e da ogni forma di liberalismo economico,
come ottimamente sottolineato dall'autore del saggio biografico.
E questa sarà la
politica che egli sempre porterà avanti, anche nei successivi
incarichi di governo, all'Industria e commercio (1947), al Tesoro
(1962), alle Finanze (1963) e alla Difesa (1966).
Una politica improntata
alla buona amministrazione, all'evitare sperperi e sprechi, al
risanamento dei conti pubblici ed alla razionalizzazione della spesa,
ma all'insegna dello spendere meno, ma meglio, in particolare in
settori importantissimi quali sanità e istruzione, sui quali
Tremelloni intese investire maggiormente.
Inutile dire che si
scontrò moltissimo con i politici della sua epoca, in tal senso.
Fu, come moltissimi
esponenti del suo partito, un sostenitore dell'adesione dell'Italia
al Patto Atlantico, ma allo stesso tempo fu, come tutti i socialisti
democratici, un sostenitore della pace, del disarmo e del dialogo e
della cooperazione internazionale con tutti i Paesi del mondo, oltre
che dell'autonomia decisionale dell'Italia.
Fu, da Ministro delle
Finanze, un sostenitore non solo della progressività delle imposte e
dell'abolizione dell'esenzione fiscale a deputati e senatori, ma
anche della lotta all'evasione fiscale e ciò gli attirò numerose
critiche, da destra e sinistra.
La sua linea rigorosa era
comprensibilmente giustificata proprio dal fatto che, grazie alle
imposte progressive, non solo le classi meno abbienti avrebbero
pagato meno, ma i servizi pubblici potevano essere resi più
efficienti, se tutti avessero pagato ciò che a ciascuno competeva.
Come fa presente Mattia
Granata nel suo saggio, Tremelloni mirava a moralizzare la vita
pubblica e politica e spesso si trovò a scontrarsi con una dura
realtà, fatta di malcostume diffuso, che spesso gli causò non poche
delusioni e persino problemi di salute.
Egli detestava
l'inefficienza, il malaffare, il trasformismo, la superficialità, la
degenerazione partitocratica.
Tutte cose che
riscontrerà anche da Ministro della Difesa, incarico che egli mai
avrebbe voluto assumere.
Pacifista della prima
ora, anche in quel caso, con grandi difficoltà, cercò di
razionalizzare la spesa militare, pur non riuscendovi e trovandosi
difronte a una realtà clientelare diffusa.
Tentò di riformare il
SIFAR, trasformandolo in SID e tentando di correggere quelle
deviazioni dei servizi segreti che stavano portando il Paese a subire
un colpo di stato di estrema destra, durante la crisi del governo
Moro-Nenni, nel 1964.
All'epoca, Tremelloni, fu
lasciato solo persino da molti suoi compagni di partito, essendosi
ormai inimicato gran parte dei poteri forti che si stavano
sostituendo allo Stato.
Nel saggio “Roberto
Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, Mattia Granata
riporta alcune significative annotazioni di Tremelloni, relative a
quel periodo: “Mi trovai intorno una cerchia abbastanza ampia di
nemici giurati. Non solo i colpiti (evidentemente
quelli del Sifar), ma anche i loro sovvenzionati (…)
legati da vincoli di complicità e omertà, mi attaccarono e fecero
attaccare con insolita durezza e con la diffusione delle più varie
calunnie contro di me attraverso la mafia solidale degli informatori
Sifar, che i servizi segreti avevano in ogni partito, in ogni agenzia
giornalistica, in ogni centro di informazione o centro politico. (…).
“Il Sifar si vendicava rabbiosamente (…) tutto lo Stato nello
Stato si ribellava contro chi aveva osato mettersi contro di lui”.
Da
allora, inizierà il declino politico di Tremelloni, sempre più
isolato anche all'interno di un un PSDI che stava perdendo gran parte
del suo glorioso passato socialista ed era in inevitabile calo di
consensi da parte dell'opinione pubblica.
Così
scriveva Tremelloni, all'indomani dell'esperienza al Ministero della
Difesa: “Il partito non mi difese dagli attacchi e dalle
calunnie, non fece quadrato attorno a me nella difficile e
spericolata traversia che mi aveva attirato gli odii di tutti gli
amici dei potentissimi servizi segreti (…) anche nei partiti di
sinistra”.
In un
PSDI guidato da Mario Tanassi, le personalità di alto profilo come
Tremelloni erano sempre più tenute ai margini (la stessa pasionaria
del socialismo, Angelica Balabanoff, negli anni, rimase sempre più
delusa dai vertici del partito dei socialisti democratici e non mancò
di sottolinearlo, nelle sue memorie).
Tremelloni
non venne più considerato in seno al PSDI e gli veniva preferita,
nel 1968, il sostegno – nel suo stesso collegio milanese - alla
candidatura di Eugenio Scalfari alle elezioni politiche e, solamente
grazie al ripescaggio dei resti, e all'interessamento di Pietro
Nenni, sarà rieletto, come fa presente il saggio di Granata.
Tremelloni, ad ogni modo,
non smise mai di scrivere, studiare e battersi contro il fenomeno
dell'inflazione, sottovalutatissimo dalla gran parte dei politici
dell'epoca. E ciò di pari passo con la denuncia tremelloniana di un
aumento degli sprechi nel settore pubblico.
Aspetti, entrambi,
peraltro, che porteranno alla crisi della Prima Repubblica, alcuni
decenni dopo e sui quali soffieranno sia gli opposti estremismi, che
i poteri forti internazionali e un'opinione pubblica manipolata dal
sistema mediatico. Portando, dunque, al crollo dei partiti
democratici di governo e alla fine dell'Italia per come l'avevamo
conosciuta.
L'ultimo atto politico di
Tremelloni fu la partecipazione al convegno milanese del PSDI “Una
politica contro l'inflazione: per lo sviluppo nella stabilità”,
del 1973 (degli atti di tale convegno, che conservo nella mia
biblioteca, parlerò in un successivo articolo, fra qualche tempo).
Dopo di allora, come
ricorda l'ottimo Granata, Tremelloni si allontanò dalla vita
pubblica. Continuò a vivere una vita molto frugale (cibandosi, come
sempre, di riso in bianco, una mela e acqua naturale) e a vivere
un'esistenza molto ritirata, fra i suoi libri, i suoi studi, la
compagnia della moglie Emma e della figlia Laura.
Molto lo aveva deluso la
politica del tempo, che aveva accantonato una personalità di
altissimo livello, che aveva dato molto al Paese e veniva ripagato
con l'oblio e l'isolamento. Specialmente da coloro i quali avrebbero
dovuto tenerlo in palmo di mano.
Come, del resto, accadde
nel Risorgimento all'Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi (che si
ritirò a Caprera, molto deluso, dimettendosi da deputato) e anche al
grande leader e partigiano Repubblicano Randolfo Pacciardi, altro
importante Ministro degli Anni d'oro dell'Italia del dopoguerra e che
da tempo denunciava la degenerazione della partitocrazia italiana,
sempre meno al servizio alla comunità. Ma che il PRI dell'epoca mise
in un canto.
Dei migliori, del resto,
pensiamo al Ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, che
fece chiudere i manicomi e si adoperò molto per il welfare, era
meglio scordarsi, per lasciare spazio alla “mafia dei
professionisti di partito”, come la chiamò lo stesso
Tremelloni.
Se vogliamo comprendere
le ragioni del disastro politico di oggi, italiano, Europeo e
Occidentale, della totale irresponsabilità e perdita di qualità del
personale politico degli ultimi trent'anni, non possiamo non
ragionare guardando al nostro passato.
E non possiamo non
onorare non solo la memoria di leader politici come Roberto
Tremelloni, ma anche apprenderne gli insegnamenti, i percorsi, la
lungimiranza e intelligenza.
Sono fra coloro i quali,
pur socialista fin da ragazzino, non credono assolutamente a una
rinascita del socialismo in Italia e Europa (e sicuramente non
considero socialisti i partitini che si dicono, oggi, tali). E ne ho
spiegato le ragioni, più e più volte. Molte di queste le ravvisò
già Tremelloni. Molte di queste le ravvisò comunque anche Bettino
Craxi, il cui PSI (l'ultimo dei partiti socialisti italiani, esistito
fino al 1992) raccolse gran parte dell'eredità socialista
democratica, ormai allo sbando.
Ciò che è possibile e
necessario fare è studiare, approfondire, ricercare, agire in modo
retto, austero, senza pregiudizi, senza tornaconti personali. Elevare
ed elevarsi oltre una massa e una politica resa incolta e arida.
“Roberto Tremelloni,
riformismo e sviluppo economico”, di Mattia Granata, scritto
benissimo e altrettanto ottimamente documentato, è, in questo senso,
un saggio preziosissimo.
Un documento raro,
fondamentale, non solo per gli storici, ma anche e soprattutto per le
nuove generazioni, siano esse formate da economisti, studiosi,
militanti politici, socialisti democratici (se ancora ne esistono,
specie fuori da partiti ormai senza alcun valore e fuori da elezioni
ormai totalmente inutili), giovani, meno giovani e quanti vorranno
recuperare il pensiero e l'azione di un grande uomo quale fu Roberto
Tremelloni.
Il Presidente della
Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, il 13 ottobre, ha presenziato
alla cerimonia di apertura del Vertice Mondiale delle Donne, tenutosi
a Pechino, presso il China National Convention Center.
Egli, ricordando come già
trent'anni fa, a Pechino, nel precedente vertice, fu fissato
l'obiettivo di “agire per promuovere uguaglianza, sviluppo e
pace”, ha avanzato quattro nuove proposte, in merito, ovvero
contribuire a creare un ambiente favorevole alla crescita e allo
sviluppo delle donne; generare una forte spinta per uno sviluppo
dell'universo femminile; delineare una governance per tutelare
diritti e interessi delle donne e scrivere un nuovo capitolo della
cooperazione mondiale in tale ambito.
Il Presidente Xi ha anche
sottolineato che, nella Repubblica Popolare Cinese, le donne
costituiscono oltre il 40% della forza lavoro totale. Nel settore del
web, più della metà degli imprenditori sono donne e il 60% dei
vincitori di medaglie nelle ultime quattro olimpiadi sono di sesso
femminile.
La Presidente della Nuova
Banca di Sviluppo dei Paesi BRICS, nonché ex Presidente del
Brasile, Dilma Rousseff, riferendosi a tale vertice mondiale, ha
sottolineato, fra le altre cose, che “Emancipare le donne è
fondamentale per costruire un futuro giusto, sostenibile e pacifico”.
Aggiungendo che “Lo
spirito di Pechino ci chiama non a commemorare, ma ad agire con
l'urgenza che l'uguaglianza di genere richiede” ed
ha sottolineato che “Non dobbiamo solo finanziare la
crescita, ma anche plasmare il tipo di sviluppo che perseguiamo: che
sia inclusivo, sostenibile ed equo”.
Il Nobel per la Pace lo
diedero anche a Kissinger. Nel 1973.
L'anno nel quale, anche
“grazie” a lui, gli USA sostennero, in Cile, il sanguinoso golpe
militare di matrice liberal capitalista guidato da Pinochet. Contro
il legittimo governo socialista di Salvador Allende.
Bella roba, vero?
A Gandhi invece niente.
Mai, nemmeno una medaglietta. Eh... troppo pacifico... troppo nemico
dei colonialisti britannici, si vede!
E a Obama? Altro Nobel. A
colui il quale farà bombardare la Libia laica e socialista di
Gheddafi.
Adesso a chi lo danno?
Al Presidente socialista
della Colombia, Gustavo Petro, impegnato a parlare di giustizia
sociale, pace e contro il regime bombardatore di Nethanyau? Macché,
gli USA gli hanno persino tolto il visto!
A Roger Waters? Altro
campione di lotta per i diritti umani e promozione della giustizia
sociale nel mondo? Macché! Altro “comunistone”, per gli “amici”
a Stelle e Strisce.
E quindi? A chi viene
dato?
Alla venezuelana Maria
Corina Machado (sic!).
Una che, nel 2002,
sostenne il golpe contro il governo eletto, socialista e democratico,
di Hugo Chavez. Golpe fortunatamente respinto dalla gran parte della
popolazione venezuelana.
Una amica degli USA,
impegnata contro i legittimi governi socialisti del Venezuela da
decenni.
Una che sostiene la
destra liberal capitalista peggiore e più estrema, come quella
dell'argentino Javier Milei e del partito di estrema destra spagnolo
Vox.
Una che sostiene le
privatizzazioni selvagge del patrimonio pubblico del suo Paese. In
primis l'industria petrolifera. Privatizzazioni che favorirebbero
chi? Le multinazionali USA in primis, ovviamente.
Quegli USA che minacciano
da sempre di invadere militarmente il Venezuela (e che da diverso
tempo schierano navi da guerra al largo delle coste caraibiche,
violando il diritto internazionale). E nel frattempo lo sanzionano.
Perché?
Perché è socialista.
Perché il socialismo, in Venezuela, vince le elezioni (comprese le
recenti Amministrative) fin dagli Anni '90, grazie al fatto che le
risorse pubbliche sono tornate nelle mani dei cittadini venezuelani.
Perché, laddove governa
il socialismo, arriverà sempre qualche estremista e fondamentalista
liberal capitalista, meglio se sostenuto dagli USA, a volerlo
distruggere.
Vi ricorda niente?
Vi ricordano niente i già
citati golpe contro Allende e Gheddafi? E quello più recente contro
il laico socialista Assad (per rimpiazzarlo con gli islamisti, sic!)?
E nel passato? Ne citiamo alcuni.
Contro l'argentino Juan
Domingo Peron; contro i governi socialdemocratici del Guatemala;
l'ingiusta clava giudiziaria contro il leader socialista brasiliano
Lula (tornato fortunatamente saldamente al governo); quella recente
contro l'ex Presidentessa peronista Cristina Kirchner e... la falsa
rivoluzione di “Mani Pulite” contro Bettino Craxi e i partiti
socialisti e democratici della Prima Repubblica Italiana! Che avevano
garantito stabilità, welfare, multilateralismo in politica estera.
Ma guarda un po'.
Siamo sempre lì.
Ogni falsa rivoluzione,
del resto, necessita dei suoi Capopopolo che siano osannati dai
grandi media di riferimento. Ad uso e consumo del sistema consumista.
Ad uso e consumo degli esportatori di (pseudo) “democrazia”,
ovvero di bombardamenti contro Paesi sovrani (la Jugoslavia... vi
ricorda niente? E l'Iraq?). Ovvero di destabilizzazioni di governi
legittimi, laici e socialisti.
Fatti passare dai media
per governi di “ladri”, “corrotti”, “dittatori”.
Per depredare quei Paesi
delle loro risorse e metterci, al governo, fantocci liberal
capitalisti di riferimento.
La storia è sempre la
stessa. E la conosciamo. Solo che, il Re, è da tempo molto più che
nudo.
Il mondo, nel frattempo,
ad ogni modo e fortunatamente, è anche sempre più cambiato.
Negli USA governano degli
anziani, peraltro sempre meno competenti. Che siano Biden o Trump. E
la loro economia è un disastro.
L'UE non ha alcuna
leadership seria e si appoggia ancora a degli USA rimasti fermi a una
sciocca e controproducente mentalità da Guerra Fredda. E a
un'economia fondata su sciocchi e controproducenti protezionismi in
stile ottocentesco.
Il resto del mondo, in
particolare il Sud del mondo, nel frattempo, rialza la testa. E'
stanco di prendere ordini dai bianchi colonialisti di Washington,
Bruxelles, Parigi o Bonn e dai loro “amichetti”.
E' il multilateralismo,
bellezza. E' il riscatto dei popoli oppressi. E' il nuovo Sol
dell'Avvenire.
E le bugie, le
falsificazioni, le invettive contro il socialismo ormai, stanno a
zero.
E' uscito ufficialmente
il numero 0 della nuova rivista di geopolitica, attualità e cultura,
“BRICS & Friends”.
La rivista, edita dalla
Mario Pascale Editore, che è anche il direttore editoriale, diretta
da Riccardo de Paola e con una redazione composta, oltre che dal
sottoscritto, anche dalla studiosa di America Latina e del mondo
arabo Maddalena Celano e dalla scrittrice e ingegnere Patrizia Boi,
si propone di collegare l'Italia all'universo BRICS e dare voce ai
Paesi del Sud del mondo.
La linea editoriale di
“BRICS & Friends” è, inequivocabilmente, multipolarista,
volta all'autodeterminazione dei popoli, all'anticolonialismo ed è
votata alla libertà, alla giustizia sociale, alla pace, alla
prosperità e al progresso dei popoli del pianeta.
Nel numero 0 sono
trattati argomenti quali l'eredità di Dostoevskij; le battaglie
della Presidentessa del Messico Claudia Sheinbaum; la competizione
turca, egiziana e israeliana nel Mediterraneo; la guerra
economico-politica contro il Venezuela socialista; il moderno
riformismo del Partito Comunista Cinese (scritto dal sottoscritto);
l'intervista all'Ambasciatore Bruno Scapini; l'etnopunk siberiano e
altro ancora.
86 pagine dense di
geopolitica, Storia, cultura, approfondimenti.
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Come recita lo slogan
della rivista, parafrasando l'Eroe dei due Mondi, il socialista
repubblicano Giuseppe Garibaldi: “Il multipolarismo è il Sol
dell'Avvenire”!
In pochi, ancora oggi,
probabilmente a causa di certa fuorviante e faziosa storiografia
clericale, fascista o marxista, sanno che il Padre del Risorgimento
italiano, Giuseppe Mazzini, non è stato solo il teorico dell'Unità
d'Italia, ma anche un profondo riformatore sociale.
Le teorie
politico-economiche di Mazzini, infatti, come già ricordato
dall'ottimo saggio di Nello Rosselli, “Mazzini e Bakunin” del
1927, sono all'origine del movimento operaio italiano.
E lo sono perché parlano
innanzitutto agli operai italiani. Li invitano ad associarsi e a
unire il capitale con il lavoro e a superare il liberal capitalismo
borghese sfruttatore e ad opporsi a un marxismo ingannatore.
Come ricorda lo storico
Silvio Berardi nel suo “Il socialismo mazziniano”, Mazzini, nel
saggio “Condizioni e avvenire dell'Europa, del 1871, scrisse:
“Il grande pensiero sociale che ferve oggi in
Europa può così definirsi: abolizione del proletariato:
emancipazione dei lavoratori dalla tirannide del capitale concentrato
in un piccolo numero d'individui: riparto dei prodotti, o del valore
che n'esce, a seconda del lavoro compito: educazione morale e
intellettuale degli operai: associazione volontaria tra gli operai,
sostituita pacificamente, progressivamente e quanto è possibile, al
lavoro individuale salariato ad arbitrio del capitalista”.
E proprio l'ottimo saggio del prof. Berardi ci
permette di conoscere e approfondire la corrente socialista
mazziniana.
Corrente che traeva linfa dal pensiero sociale di
Giuseppe Mazzini, che a pieno titolo sarà rappresentato nell'ambito
della Prima Internazionale dei Lavoratori del 1864, e che sarà
sviluppata e articolata da figure quali Arcangelo Ghisleri, Alfredo
Bottai, Giulio Andrea Belloni, ma anche da Vittorio Parmentola,
Giuseppe Chiosterghi, Oliviero Zuccarini e altri.
Figure che rappresenteranno quella sinistra del
Partito Repubblicano Italiano, volutamente dimenticata dal PRI a
partire dalla scomparsa di Belloni, nel 1957, ma ancor prima
osteggiata, dagli esponenti di quella destra repubblicana, i quali
finiranno per trasformare il PRI, da partito risorgimentale di
estrema sinistra, a partito sempre più liberale e al servizio della
DC.
“Il socialismo
mazziniano”, edito da Sapienza Università Editrice, con il
patrocinio del Centro Studi Gaetano Salvemini, è un testo raro,
ottimamente scritto e documentato, che apre un'orizzonte a coloro i
quali vorranno approfondire questa suggestiva corrente del socialismo
italiano.
Saggio interessante fin
dalla prefazione del prof. Gaetano Pecora, il quale ricorda l'idea
socializzatrice di Mazzini, volta a superare il “giogo del
salario”, per “mettere il capitale nelle mani di chi
lavora”.
Un Mazzini che, dunque,
considera i lavoratori del produttori e non degli sfruttati dal
salario e che, dunque, dovrebbero emanciparsi, tanto dal padrone privato
che dallo Stato.
Un Mazzini che, come
ricorda il prof. Pecora, pone al primo posto l'educazione quale
strumento per l'emancipazione e la libertà autentica. Un'educazione
volta a superare l'egoismo umano, per approdare al senso del dovere
nei confronti della comunità intera.
E così, come ci spiega
fin dai primi capitoli Silvio Berardi, a sviluppare per primo il suo
pensiero, fu il sindacalista rivoluzionario Alfredo Bottai (1874 –
1965).
Fu, infatti, Bottai a
coniare il termine “socialismo mazziniano”, attraverso il suo
omonimo saggio, “Socialismo mazziniano”, del 1908.
Saggio nel quale si
ponevano al centro i concetti di associazionismo operaio, educazione
morale e spirituale degli individui, responsabilizzazione degli
stessi e emancipazione sociale.
L'obiettivo di Bottai era
quello di cercare un'unità e una sinergia politica fra repubblicani,
socialisti, radicali e anarchici, mettendo al primo posto la questione
sociale.
Egli fu sincero amico dei
sindacalisti rivoluzionari di ispirazione mazziniana Filippo
Corridoni e Alceste De Ambris (celebre per aver redatto la
dannunziana, libertaria, socialista mazziniana Carta del Carnaro) e
diresse il giornale “La Gioventù Sindacalista”.
Egli peraltro protestò
sempre, come ricordato da Berardi, contro l'appropriazione del
pensiero mazziniano e corridoniano da parte del regime mussoliniano,
il quale nei fatti lo stravolse e tradì ampiamente.
E lo fece nonostante
fosse il nipote del Ministro fascista Giuseppe Bottai, del quale non
condivise mai le idee.
In tutte le sue opere,
Bottai, ribadì anche che il socialismo mazziniano nulla aveva a che
spartire con il marxismo, in quanto quest'ultimo sopprimeva ogni
forma di credenza spirituale, ogni forma di autorità e la proprietà
individuale. Mentre i socialisti mazziniani, pur egualmente e
radicalmente critici nei confronti del sistema capitalista fondato
sul salario e del liberalismo in generale, si opponevano alla lotta
di classe e fondavano la loro dottrina sul riconoscimento dei diritti
di proprietà e sull'associazionismo operaio, oltre che
sull'elevazione morale e spirituale degli individui e sulla
fratellanza universale.
Bottai, rifacendosi a
Mazzini, ricordava che non vi può essere alcuna libertà, né alcun
benessere sociale senza una coscienza morale “ispirata all'idea
del dovere, della solidarietà, di un alto concetto della vita”.
Silvio Berardi, nel suo
saggio, ci ricorda peraltro che le istanze di Bottai trovarono
parziale accoglimento anche al Congresso nazionale del Partito
Repubblicano del 1914, tenutosi a Bologna.
Congresso che rivendicò
la matrice socialista delle idee mazziniane.
Le idee socialiste
mazziniane, nel corso degli Anni '20, trovarono, dunque, una loro
diffusione e dimensione e fu così che, a rimanerne influenzato, fu
Giulio Andrea Belloni (1902 – 1957), futuro giurista esperto in
criminologia.
Nel 1923 Belloni divenne
discepolo di Bottai, oltre che del Padre nobile del Repubblicanesimo
italiano, Arcangelo Ghisleri (1855 – 1938), con il quale ebbe
lunghi rapporti epistolari.
Ghisleri, peraltro, fu il
fondatore della rivista “Cuore e Critica”, nel 1887, che diverrà
poi “Critica Sociale”, ovvero la principale rivista del
Socialismo italiano, a dimostrazione delle influenze repubblicane
mazziniane risorgimentali nell'ambito tradizione socialista del
nostro Paese.
Belloni, che divenne
Segretario nazionale del PRI nel 1924, come scrive Berardi,
considerava il mazzinianesimo una sorta di “via italiana al
socialismo”.
Belloni e Bottai, con
l'avvento del fascismo, militeranno entrambi nelle fila di Giustizia
e Libertà, movimento liberalsocialista che ebbe fra i fondatori gli
esuli Carlo e Nello Rosselli e, all'interno di GL, diffonderanno le
idee socialiste mazziniane.
Nel 1945, Belloni, darà
alle stampe il suo “Repubblica e socialismo”, nel solco degli
insegnamenti di Mazzini, Ghisleri e Bottai, ma anche del
rivoluzionario risorgimentale Carlo Pisacane (1818 – 1857), le cui
idee univano il mazzinianesimo, il socialismo libertario e
l'anarchismo di Proudhon.
La visione di Belloni si
fondava sull'etica del lavoro, sulla lotta al parassitismo e sulla
giustizia sociale.
In questo senso, egli,
faceva propria l'idea di Gaetano Salvemini (1873 – 1957) di
costituire una “terza forza” laico-risorgimentale-socialista
(detta anche “concentrazione repubblicana-socialista”, secondo il
saggio di Salvemini del 1944), in grado di contrapporsi tanto al
bolscevismo del PCI, quanto al clericalismo della DC.
Un terzaforzismo
antborghese, anticapitalista, ma inserito a pieno titolo nel solco
riformista e dunque volto al dialogo con il PSI di Pietro Nenni
(questi peraltro proveniva dalle fila repubblicane) e con il PSLI di
Giuseppe Saragat, oltre che con quelle figure del primo Partito
Radicale, quali Ernesto Rossi, che avevano una visione contigua e
molto simile a quella dei socialisti mazziniani.
In questo senso, Giulio
Andrea Belloni, sarà il capostipite della sinistra repubblicana
all'interno del PRI. E, in un primo tempo, trovò persino l'appoggio
dell'allora Segretario del PRI, Randolfo Pacciardi, anch'egli molto
lontano dalle istanze liberali degli ex azionisti come Ugo La Malfa,
ovvero dalla destra del partito.
Belloni, peraltro, si
troverà molto in sintonia con Guido Bergamo (fratello di quel Mario
Bergamo, ex Segretario del PRI, che già negli Anni '20 teorizzava
un'unione fra repubblicani e socialisti) e fondatore del Partito
Repubblicano Sociale Italiano e del giornale “La Riscossa”, di
Treviso.
La sinistra repubblicana
di Belloni fonderà la testata “L'Idea Repubblicana” e spesso
entrò in contrasto con “La Voce Repubblicana” e con la destra
del PRI, per nulla legata alla tradizione risorgimentale mazziniana,
ma vicina al “New Deal” rooseveltiano.
Anche Bottai, sostenendo
le idee di Belloni, ricordava sempre, sulle pagine de “L'Idea
Repubblicana”, che la sinistra repubblicana non si contrapponeva
frontalmente al marxismo e al comunismo, pur essendone avversaria.
Bensì si contrapponeva a tutti coloro i quali erano nemici del
lavoro. Essa si batteva per la scomparsa del “regime del
salario” e avrebbe lottato accanto a tutti coloro i quali
“combattono questa borghesia gretta, egoistica e supremamente
stupida”.
Il dialogo con i
socialisti di Nenni, ad ogni modo, fallirà, in quanto questi
finiranno per unirsi al PCI nell'ambito del Fronte Democratico
Popolare (così come fecero anche i repubblicani sociali di Guido
Bergamo).
Silvio Berardi ribadisce,
nel suo ottimo saggio, i concetti fondamentali del socialismo
mazziniano, ovvero della sinistra repubblicana nel PRI: abolizione
del salario; abolizione del proletariato; abolizione della borghesia,
del capitalismo e della delinquenza plutocratica; democrazia diretta
e cooperativismo operaio, in modo che i lavoratori potessero essere i
beneficiari diretti degli utili dell'impresa. E fine della
collaborazione governativa con la DC. A livello internazionale, poi,
avrebbe voluto lavorare per un'Europa unita e emancipata rispetto a
quelli che considerava i due imperialismi, USA e URSS, che
rappresentavano entrambi modelli che avrebbero negato libertà e
emancipazione sociale.
Un programma avanzato e
moderno, ma dalle radici antiche. Purtroppo avversato all'interno del
PRI e poco compreso dalle altre forze di sinistra italiane, in
particolare da un PCI che le avrebbe volute egemonizzare.
Nel corso degli Anni '50,
come spiega l'ottimo Berardi, i socialisti mazziniani finiranno per
essere sempre più marginalizzati, all'interno del PRI.
Alcuni, come Oliviero
Zuccarini (1883 – 1971), fonderanno l'Unione di Rinascita
Repubblicana e, nel 1953, contribuiranno, assieme ad alcuni
esponenti di Giustizia e Libertà e fuoriusciti socialdemocratici, a
costituire il movimento Unità Popolare.
Belloni rimarrà nel PRI,
per spirito unitario.
Morirà prematuramente nel 1957 e così anche
la corrente di sinistra repubblicana non gli sopravvisse, perché i
suoi amici e discepoli non ebbero la forza di lottare all'interno di
un PRI che ormai aveva preso una piega totalmente liberale e opposta
agli ideali originari.
Un vero peccato, perché
il socialismo mazziniano è oggettivamente una forma di socialismo
puro, non materialista, pragmatico, umanitario, spirituale, che, se
in Italia non ha avuto successo, per molti versi ha trionfato in vari
Paesi dell'America Latina odierna, probabilmente anche grazie alla
diffusione di quegli ideali operata già dagli esuli risorgimentali,
quali Giuseppe Garibaldi.
Ideali che hanno saputo
fondersi con l'indigenismo, con la spiritualità teosofica e
massonica e con un marxismo meno ideologico rispetto a quello
europeo.
Il saggio di Silvio
Berardi è un faro che illumina le menti di chi, come il
sottoscritto, a questi ideali, sin da ragazzo, si ispira e diffonde
(con le stesse identiche difficoltà incontrate da Bottai e Belloni),
sia di coloro i quali non hanno mai avuto la possibilità di
conoscere questa storia, che è Storia d'Italia e d'Europa e che
forse è l'unica storia davvero democratica, sociale e civile del
nostro Paese e dell'Europa intera.
In Repubblica Ceca, alle
elezioni parlamentari del 3 e 4 ottobre scorsi, battuta d'arresto per
la coalizione di centrodestra SPOLU e il governo uscente di Peter
Fiala, che, dal 27,8% è passata al 23,4%.
Grande vittoria, invece,
per gli euroscettici moderati di Andrej Babiš del partito ANO 2011
(improprio definirli “di destra”, perché al loro interno
contengono anche elementi di centro-sinistra e di critica al
liberalismo economico), che in passato hanno governato con il Partito
Socialdemocratico Ceco (CSSD), ricevendo anche l'appoggio esterno del
Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM), che sono passati dal
27,1% al 34,5% e che dovranno formare il nuovo governo.
I primi a non entrare in Parlamento, invece, a causa di una assurda e
non troppo democratica legge elettorale che prevede lo sbarramento
(un po' come in Italia e non solo...sic!) i socialdemocratici, i
nazionalisti di sinistra e i comunisti patriottici del KSCM, uniti
nella coalizione Stačilo!, guidata dalla comunista Katerina Konecna,
che ottengono il 4,3%.
Da considerare anche che,
l'estate scorsa, il governo di Fiala, voleva mettere al bando il
comunismo in Repubblica Ceca ed ha fatto di tutto per ostacolare tale
coalizione, fondata sui principi di giustizia sociale, sovranità
nazionale, libertà di parola, aumento dei fondi per istruzione e
assistenza sanitaria pubbliche, euroscetticismo, pace e
multilateralismo e il KSCM aveva così denunciato tale aspetto: “Il
governo di Petr Fiala è stato finora responsabile dell’introduzione
della censura, del divieto di pagine web e della persecuzione degli
oppositori politici, della loro criminalizzazione e del licenziamento
per motivi politici. Il Partito Comunista di Boemia e Moravia
respinge fermamente tale emendamento al Codice Penale. Lo ritiene
deliberato e discriminatorio. I ripetuti tentativi di vietare il
KSCM, che sono stati respinti dall’opinione pubblica in passato,
miravano a soddisfare i loro elettori e intimidire chiunque
criticasse l’attuale regime. Il KSCM non sarà messo a tacere,
così come i valori che i comunisti difendono: cooperazione
internazionale, solidarietà, progresso e pace”.
Katerina Konecna, nel
ringraziare i suoi elettori, su Facebook ha scritto: “Cari
amici, prima di tutto, vorrei ringraziarvi di cuore. È stata una
bella corsa, ma purtroppo ci siamo fermati poco prima del traguardo.
Ringrazio tutti gli oltre 240.000 elettori. Un grande ringraziamento
va anche agli oltre 300 candidati del movimento Stačilo! Hanno
affrontato insulti, aggressioni fisiche, bullismo, campagne
mediatiche e tribunali. Sono riusciti a rallentarci, ma non a
fermarci! La nostra voce continuerà a essere ascoltata nel
Parlamento europeo, nelle regioni e l'anno prossimo ci saranno le
elezioni comunali! Non rinuncerò mai alla lotta per la
Repubblica Ceca e i suoi cittadini! Nessuno ci fermerà!”.
La semplificazione del
pensiero uccide il pensiero.
I media, che semplificano
tutto, dalle azioni ai pensieri, hanno, di fatto, ucciso il pensiero
(libertà di stampa o licenza di uccidere la complessità?).
Le tecnologie legate all'
IA pretendono di superare il pensiero umano. Ce la faranno.
Sono progettate,
consapevolmente o meno, per uccidere il pensiero.
E la stessa cosa fanno le ideologie e le religioni.
Le verità rivelate e non interiori uccidono il pensiero.
Il pensiero è ricerca. Meglio se essa è rivolta all'interiorità. Nulla che sia esteriore può davvero raggiungere autentici livelli di creatività e consapevolezza.
(Luca Bagatin)
In generale tendo a
credere al dialogo e al confronto.
Vedo che, in generale,
soprattutto di questi tempi, è pressoché impossibile o molto
difficile.
Una delle cose più
difficili da fare è invitare le persone ad aprire la propria mente e
andare oltre le banalità, l'ovvio e i luoghi comuni.
Faccio una fatica
intredibile, spesso, a fare ciò, al punto che, per scelta, frequento da anni pochissime
persone e, alla piazza, all'agòrà, preferisco la lettura. E il
cibo.
La tifoseria, per me, è
come la religione. Una puttanata pazzesca.
Un modo che hanno le
persone per costituirsi delle certezze.
Personalmente ho sempre
amato le domande. Di rado trovo interessanti le risposte.
Perché la domanda
stimola il cervello a ragionare. La risposta tende a fossilizzarlo.
Religione, dogma,
ideologia, risposte dell'Intelligenza Artificiale, non riusciranno
mai ad attirare la mia attenzione, ma mi trasmetteranno, sempre, profonda
repulsione.
Amo la ricerca
incessante. Non una scatola piena zeppa di bugie che la mente si costruisce, alimentandosi di banalità, ipocrisie, dogmi, che generano divisione e non portano ad alcuna comprensione.
Il 1 ottobre scorso, è
stato celebrato, in Cina, il 76esimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese, costruita con fatica dalle lotte di Chen
Duxiu, Zhou Enlai, Chen Yun, Mao Tse-Tung, Deng Xiaoping e molti
altri esponenti del Partito Comunista Cinese che, attraverso le battaglie socialiste e democratiche per l'emancipazione contro l'oligarchia dei Signori della
Guerra, delle potenze coloniali occidentali e dei Nazionalisti di Chiang Kai-shek, ha saputo costruire una
grande democrazia sociale e popolare, oggi divenuta pressoché quasi
la prima potenza del mondo.
La Repubblica Popolare
Cinese, oggi guidata dal Presidente Xi Jinping, degno erede della
tradizione socialista riformista di Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu
Jintao, sta per formulare il suo 15esimo Piano Quinquennale
(2026-2030), che punta a raggiungere una piena modernizzazione
socialista.
In occasione delle
celebrazioni della nascita della Repubblica Popolare Cinese, il
Presidente Xi ha affermato che “Dall'orlo del pericolo nazionale
al cammino di grande rinnovamento, la nazione cinese ha continuato ad
avanzare attraverso difficoltà e lotte, ma anche con grande
entusiasmo e trionfi clamorosi”.
I risultati ottenuti dai
Piani Quinquennali precedenti sono stati notevoli, se pensiamo che
fra il 2021 e il 2025, i consumi hanno contribuito per circa il 60%
alla crescita economica annuale del Paese; le vendite dal dettaglio
sono in crescita di circa l'80% rispetto agli USA; il mercato al
dettaglio online è stato il più grande al mondo per dodici anni consecutivi e le vendite
d'auto sono state in cima alle classifiche mondiali per ben sedici anni consecutivi.
Grandi investimenti,
peraltro, sono stati effettuati nell'ambito dell'industria verde e
della transizione ecologica, oltre che nel settore dell'intelligenza
artificiale.
Il Presidente Xi, nel
sottolineare la necessità di implementare la filosofia incentrata
sull'innovazione, l'apertura, la condivisione dei benefici e lo
sviluppo di nuove forze produttive, ha invitato a creare “un
sistema di governance globale più giusto e equo”, in un
momento storico nel quale il mondo è percorso da turbolenze e guerre
d'ogni genere.
Ovvero di continuare a
sostenere un vero multilateralismo, collaborando con tutte le nazioni
al fine di “costruire una comunità con un futuro condiviso per
l'umanità”. Frase che, ormai, è il leitmotiv della leadership
socialista riformista del Presidente Xi Jinping, che punta alla
stabilità e alla pacificazione globale.
La Repubblica Popolare
Cinese, in sede ONU, peraltro, lo scorso 18 settembre, aveva
denunciato gli USA per aver abusato del loro potere di veto
nell'ambito del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, al fine di bloccare
la richiesta di un cessate il fuoco per porre fine alle gravi condizioni nelle quali si trova la popolazione di Gaza.
In merito a tale
situazione, attraverso l'Ambasciatore presso l'ONU, Fu Cong, la RPC
ha ribadito la necessità di un cessate il fuoco duraturo; ha
denunciato la militarizzazione del meccanismo di distribuzione degli
aiuti umanitari e gli attacchi contro i civili perpetrati dal regime
di Nethanyau e ha sottolineato l'urgenza di lavorare per una
soluzione a due Stati, rispettando la volontà popolare del popolo
palestinese e secondo il quale i palestinesi possano governare la
Palestina.
Nell'ottobre dell'Anno Orribile 1993, mentre in
Italia imperversava quella che Bettino Craxi definì, giustamente,
“falsa rivoluzione di Tangentopoli”, che – annientando sotto la
mannaia politico-mediatico-giusiziaria i partiti di governo
democratici, ovvero la DC, il PSI, il PSDI, il PRI e il PLI - metteva
fine a 50 anni di democrazia nel Paese, nella Russia neo-eltsiniana,
accadeva più o meno la stessa cosa. Anche se in modo più violento e
cruento.
Erano il 3 e 4 ottobre 1993, quando i commandos
russi, su ordine di Boris Eltsin, bombardarono il Parlamento, ovvero
il Congresso dei Deputati del Popolo.
Fu il culmine di quel
golpe bianco liberale, che attentò al cuore della democrazia russa,
ovvero della Repubblica Socialista Federativa Russa (RSFR).
Quasi 2.500 le vittime.
Il tutto nacque con la
crisi costituzionale del 21 settembre 1993, nel momento in cui
Eltsin, Presidente della RSFR, decise di sciogliere il Congresso dei
Deputati del Popolo e il suo Soviet Supremo, accusando i deputati di
essere “troppo comunisti”.
Un atto totalmente
incostituzionale, autoritario, golpista, ma fatto passare dai media
occidentali come un atto di grande democrazia, così come ogni
nefandezza di Eltsin. Ovvero il piano di svendita del patrimonio
statale sovietico e la sua conseguente spartizione fra oligarchi e
criminali.
Il Parlamento russo si
oppose a tale piano definito, vergognosamente, “riformista”.
Il Vicepresidente
Aleksandr Ruckoj – che si pose a difesa del Parlamento - denunciò
il programma liberale di Eltsin definendolo una forma di “genocidio
economico”, anche in quanto impoverì drammaticamente e
drasticamente la popolazione.
Il Parlamento – dopo la
richiesta di scioglimento - si affrettò dunque a sostituire Eltsin
con Ruckoj, ma il Presidente rispose, dal 3 al 4 ottobre, inviando le
forze speciali e i carri armati, bombardando la sede della democrazia
sovietica, con i deputati chiusi all'interno.
Durissimi gli scontri,
anche di piazza, fra le forze speciali e cittadini scesi a difendere
– con tanto di bandiere rosse con la falce e martello e ritratti di
Lenin in mano, ma anche con bandiere zariste - la legittimità del
Parlamento e ciò che rimaneva delle conquiste socialiste e
sovietiche.
Conquiste sostenute
pensino dai monarchici neo zaristi, che combatterono assieme ai loro
ex nemici, ovvero i comunisti, per difendere ciò che rimaneva della
democrazia russa.
Nonostante la resistenza
popolare eroica, le forze di Eltsin accerchiarono la Casa Bianca,
sede del Parlamento, che fu conquistata.
Il resto è Storia che
conosciamo.
Gli oppositori al golpe
liberale eltsiniano si riunirono nel Fronte Patriottico o Fronte di
Salvezza Nazionale, composto da numerosi neonati partiti comunisti,
fra cui i comunisti guidati da Gennady Zjuganov; quelli guidati da
Viktor Anpilov (che quest'anno avrebbe compiuto 80 anni e che nel
1992 fondò il partito comunista “Russia Laburista” e molto amico
di Limonov) e dai nazionalbolscevichi dello scrittore Eduard Limonov,
il quale partecipò attivamente alla difesa del Parlamento, mentre
sua moglie di allora, la cantante e poetessa Natalya Medvedeva,
lanciò un appello contro il golpe – pubblicato anche dalla stampa
francese dell'epoca – e sottoscritto da numerosi artisti e
intellettuali russi.
Nonostante ciò,
l'oligarchia liberal-capitalista ebbe la meglio.
In Russia il comunismo –
che dal 1917 aveva emancipato il popolo - fu, se non bandito,
considerato alla stregua del fascismo. E continuarono le svendite di
Stato e lo smembramento delle Repubbliche ex sovietiche, ormai preda
di oligarchi, affaristi, mafiosi e neonazisti. Una svendita ancora
per nulla terminata con il passaggio delle consegne da Eltsin a
Putin, che ha proseguito nello smantellamento del sistema sociale e
economico sovietico.
Ancora oggi, la gran
parte dei cittadini russi, non ha dimenticato. E, molti dei
famigliari delle vittime di allora, oltre che molti cittadini,
sfilano ancora oggi con cartelli recanti le foto dei propri cari,
amici, parenti e conoscenti morti negli scontri.
Ligaciov, esponente
riformista del PCUS e successivamente anima riformista e moderata
dell'opposizione guidata dal Partito Comunista della Federazione
Russa, spiegò molto bene la tensione di quegli anni e le ragioni che
portarono a tale tensione, che ancora oggi si trascina ad Est, con
guerre fratricide, che sembrano drammaticamente non avere fine. Vedi
il conflitto russo-ucraino, alimentato dalle solite oligarchie
liberal-capitaliste occidentali, dai loro media e dai politicanti di
riferimento, che soffiano sul fuoco.
Molto interessanti questi
passaggi di Ligaciov: “Il vero dramma della perestrojka consiste
nel fatto che i suoi leader, invece di usare la normale arma della
critica contro i cosiddetti conservatori, fecero loro la guerra e,
impegnati in questo, non videro invece – o non vollero vedere –
il vero, grande, principale pericolo che gradualmente aumentava: il
nazionalismo e il separatismo”.
E molto interessanti le
conclusioni di Ligaciov, in merito alla necessità di recuperare
l'idea socialista democratica, peraltro distrutta, alla metà degli
Anni '90, sia in Italia (con la distruzione del PSI di Bettino Craxi
e del PSDI di Pietro Longo, leader purtroppo dimenticato e al quale
ho dedicato diversi articoli), che nel resto d'Europa (dopo la
scomparsa di Mitterrand e dei grandi leader socialisti europei degli
Anni '70 e '80): “Sono convinto che il socialismo sia una delle
vie che conducono al progresso universale. Come intendo io il
socialismo? Una società in cui si dà priorità all'uomo e alla
democrazia. La base economica del socialismo è la proprietà sociale
dei mezzi di produzione, ma in forme differenziate: l'uomo vi diventa
comproprietario, e vi convivono pianificazione e libero mercato.
La base politica di
questo regime sono i Soviet a tutti i livelli e uno Stato di diritto.
Sul piano morale è una società in cui nei valori socialisti trovano
posto sublimandosi i valori individuali; sul piano sociale è un
regime di giustizia sociale, privo di oppressioni e ingiustizie, una
società in cui non esiste la disoccupazione e in cui a ciascuno
viene garantito il diritto al lavoro”.