A pochi giorni dalle
elezioni parlamentari, che si terranno il 26 ottobre prossimo, la
piazza peronista argentina si mobilita per celebrare l'80esimo
anniversario del “Giorno della Lealtà”, festeggiato in Argentina
ogni 17 ottobre.
Tale anniversario è
particolarmente importante, perché ricorda la grande mobilitazione
sindacale e operaia che, il 17 ottobre 1945, ottenne la liberazione
dell'allora colonnello Juan Domingo Peron, il quale aveva guidato,
due anni prima, un movimento sociale comprendente socialisti e sindacalisti rivoluzionari, promuovendo i diritti dei lavoratori
attraverso le sue funzioni di Ministro del Lavoro e della Previdenza
Sociale.
Il suo arresto fu
ordinato dai suoi oppositori, sostenuto anche dall'immancabile
ambasciatore-destabilizzatore USA di turno, ma la mobilitazione
popolare portò al suo rilascio.
Il 17 ottobre è
considerata, in Argentina, la data di fondazione del Peronismo o
Giustizialismo, corrente del socialismo che, ancora oggi, porta
avanti giustizia sociale, indipendenza economica, sovranità
nazionale e diritti civili e che condusse Peron al governo, attraverso
le elezioni presidenziali del febbraio 1946, sostenuto dal Partito
Laburista.
Ancora oggi, i
sostenitori di Juan Domingo e Evita Peron, la sua indimenticata
consorte, scendono in piazza, non solo per celebrare il Peronismo, ma
anche per chiedere a gran voce la liberazione dell'ex Presidentessa
peronista Cristina Fernandez de Kirchner, agli arresti domiciliari
per un'ingiusta condanna per corruzione, che le impedisce di
candidarsi alle elezioni parlamentari.
La marcia dei movimenti
sociali e sindacali è culminata difronte alla residenza dell'ex
Presidentessa, a Buenos Aires, e, come accade da mesi – nel corso
delle varie mobilitazioni popolari - ha denunciato le politiche di
persecuzione politico-giudiziaria contro l'esponente peronista.
Gli
organizzatori, puntando il dito contro l'attuale regime liberal
capitalista del trumpiano e filo statunitense Javier Milei, hanno
affermato che “ottant’anni
dopo,ilperonismo
riunisce il popolo argentino
davanti a una
realtà che riproduce
vecchi
attacchi contro
i diritticonquistati:
tagli al
lavoro e alle
pensioni; precarizzazione dell’occupazione; smantellamento dello
Stato;
consegna delle risorse
nazionali e
scarsa considerazioneper la
salute e
l’istruzione
pubblica”.
Il
Peronismo sta tornando in Argentina. E, allo stesso modo, il
Socialismo non si piegherà, nel resto dell'America Latina, ai diktat
dell'ipocrita e per nulla democratico regime suprematista bianco a
Stelle e Strisce che, nonostante i numerosi e storici tentativi di
destabilizzazione, golpe e embarghi vari (in Venezuela, a Cuba, in
Nicaragua, ma l'elenco è lunghissimo), è sempre stato respinto.
E
se non lo sarà oggi, lo sarà domani.
Perché
il riscatto dei popoli oppressi è una realtà inarrestabile, che
nessun regime, men che meno quello fondato sul danaro e su una finta
idea di libertà, potrà fermare.
Era il 15 ottobre 1987, quando il Presidente del
Burkina Faso – Thomas Sankara – fu ucciso, nell'ambito del colpo
di Stato organizzato dal suo ex compagno d'armi Blaise Campaoré, con
l'appoggio degli USA, della Francia e dei militari liberiani.
Sankara fu e rimane un
simbolo per i popoli del Terzo Mondo africani. Un simbolo panafricano
di riscatto e emancipazione.
Burkina Faso, significa,
letteralmente, “paese degli uomini integri”. Così come integro
fu sempre Sankara, salito al potere a soli 35 anni, attraverso una
rivoluzione senza spargimento di sangue, esattamente come avvenne in
Libia, con Mu'Ammar Gheddafi.
Sankara nacque il 21
dicembre 1949 da una famiglia povera burkinabé. Il suo sogno, sin da
bambino, fu che il suo popolo potesse affrancarsi dal neocolonialismo
e che tutti potessero vivere in pace, con due pasti al giorno.
Per potersi mantenere
entrò nell'esercito partecipando ad un concorso per accedere alla
Scuola militare Pryatanée di Kadiogo, superando il concorso nel
1966.
Nel 1978 conobbe colui il
quale, tempo dopo, l'avrebbe assassinato, ovvero Blaise Campaoré e
con lui costituì il Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti al fine
di rovesciare il regime corrotto dell'Alto Volta.
Nel novembre 1980, senza
alcun spargimento di sangue, prese il potere il colonnello Sayé
Zerbo e Sankara, vista l'alta popolarità di cui godeva
nell'esercito, fu nominato Segretario di Stato per l'Informazione.
Purtuttavia, in aperto contrasto con il governo che egli scoprì
essere corrotto tanto quanto i precedenti, si dimise dall'incarico
nell'aprile 1982 e sarà arrestato assieme agli altri componenti del
Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti.
Un successivo colpo di
Stato porterà al potere Jean-Baptiste Ouédraogo che, oltre a
liberare Sankara ed i suoi compagni, lo nominerà Primo Ministro.
Da quel momento Sankara
inizierà ad applicare sanzioni contro i funzionari pubblici
fannulloni, eliminando alcuni vantaggi dei dipendenti pubblici ed
iniziando a viaggiare per i Paesi del Terzo Mondo intessendo sempre
più fitte relazioni, in particolare con la Libia di Mu'Ammar
Gheddafi.
Tornato in patria,
Sankara trovò la sua abitazione circondata da carri armati condotti
da uomini al soldo del governo francese, il quale temeva l'impulso
rivoluzionario del governo da lui presieduto. Egli fu così arrestato
e detenuto presso un campo militare.
Grazie ad una
sollevazione popolare lui ed i suoi compagni saranno liberati il 30
maggio 1983 ed inizieranno a progettare il colpo di Stato dell'agosto
successivo, che lo porterà finalmente alla Presidenza della
Repubblica con un programma ambiziosissimo, che riuscirà purtroppo
ad attuare solo in parte a causa del suo assassinio, nell'ottobre
1987.
Un programma che
consistette in: una massiccia opera di vaccinazione che permise la
riduzione di mortalità infantile in Burkina Faso; in una massiccia
opera di rimboschimento al fine di far rivivere l'arido Sahel; nella
riforma agraria che permise di ridistribuire le terre ai contadini;
nella politica di soppressione delle imposte agricole; nelle
importantissime politiche di liberazione femminile che proibirono la
pratica barbarica dell'infibulazione, nell'abolizione della
poligamia, nella partecipazione delle donne alla vita politica del
Paese attraverso l'istituzione dell'Unione delle Donne del Burkina,
nell'istituzione della giornata dei mariti al mercato; in un
programma di riduzione delle spese e del processo di autarchia
ribattezzato da Sankara “produciamo quello che consumiamo”, al
fine di abolire progressivamente la dipendenza dalle importazioni con
l'estero; la costruzione di apposite dighe, pozzi e bacini idrici che
garantissero a tutti l'accesso all'acqua e la garanzia di due pasti
al giorno per tutti i burkinabé; la costruzione di un campo sportivo
per ogni villaggio al fine di garantire a tutti il diritto
all'attività fisica e ricreativa; la lotta alla corruzione pubblica
e la richiesta di Sankara ai Potenti della Terra di cancellare il
debito ai Paesi del Terzo Mondo, in quanto frutto del colonialismo e
del neocolonialismo e dunque all'origine del sottosviluppo di tali
Paesi; la proposta di disarmo progressivo di tutti i Paesi africani
in modo che questi non combattano più fra loro, ma lottino per
l'unità e l'emancipazione dei popoli africani; lo sforzo di far
partecipare tutti alla vita pubblica del Paese, attraverso appositi
comitati rivoluzionari e una radio attraverso la quale chiunque
potesse fare proposte o criticare l'operato del governo.
Programma ambizioso e in
parte realizzato sino a quell'ottobre 1987 nel quale sarà ucciso -
con un colpo di revolver - dal suo amico di lotte, il quale prenderà
così il potere e annullerà molte delle riforme portate avanti da
Sankara, facendo peraltro tornare il Burkina Faso preda della
corruzione e dei potentati economici e politici stranieri.
Un sogno, quello della
Rivoluzione burkinabé, dunque tragicamente interrotto. Un sogno che
fu sostenuto peraltro anche dal Partito Radicale di Marco Pannella
che lanciò in quegli anni una campagna contro lo sterminio per fame
nei Paesi del Terzo Mondo e che porterà lo stesso Presidente Thomas
Sakara ad iscriversi al loro partito.
La vita e l'esempio di
Sankara, portato avanti dall'attuale Presidente del
Burkina Faso, Ibrahim Traoré, che combatte tanto contro l'imperialismo neocoloniale francese, che contro il terrorismo islamista, ci spiegano, per moltissimi versi, le vere cause del fenomeno
migratorio di oggi, che è frutto del capitalismo, del colonialismo e
del neocolonialismo dei governi dei Paesi ricchi europei e
statunitensi. I quali continuano a invadere e destabilizzare Paesi
sovrani, a sanzionarli, a vendere loro armi. E obbligano i Paesi
poveri ad indebitarsi, attraverso le criminali politiche della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, già ampiamente
denunciate da Sankara stesso.
Sankara rimane un simbolo
per i popoli liberi e sue lotte, che sono ancora oggi le lotte dei
panafricani, meritano rispetto e concreta attuazione. Affinché il
suo sacrificio eroico non sia stato vano.
Oggi, gli italiani, lo
dimostrano anche le recenti elezioni amministrative, non vanno più a
votare, per la gran parte.
Non si riconoscono,
infatti, in contenitori pressoché uguali e sempre più uguali, con
il passare degli anni.
Contenutori volti a
distruggere i diritti dei lavoratori; lo stato sociale; la sanità
pubblica; a non fare nulla per i diritti degli anziani; delle donne e
dei bambini; a non far nulla contro le baby gang e mantenere l'ordine
pubblico.
Contenitori lontani tanto
a livello nazionale, quanto a livello locale, dalle necessità dei cittadini e della comunità.
Contenitori che
preferiscono piegarsi ai desiderata, sempre più sconsiderati e
guerrafondai, di Bruxelles e Washington. Che fanno di tutto per
distruggere un Occidente alla deriva.
La storia che racconterò
e che ho già raccontato in altri articoli e video, riassumendola, è
quella di un politico onesto, di un servitore della comunità,
attraverso lo Stato democratico italiano di una Repubblica che non
esiste più.
Quella Prima Repubblica,
nella quale, governavano partiti di autentico Centro-Sinistra. E non
gli eredi degli opposti estremismi, approdati al liberal capitalismo
assoluto e al fondamentalismo senza costrutto, che si dicono
“riformisti” senza esserlo mai stati.
E' la storia di un
socialista democratico, raccontata in primis da Mattia Granata, nel
suo “Roberto Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, edito
da Rubbettino, con il contributo del Centro per la cultura d'impresa.
Di Roberto Tremelloni
(1900 – 1987), che ricoprì i Ministeri dell'Industria e del
Commercio; del Tesoro, delle Finanze e della Difesa, Enrico Mattei
ebbe a scrivere, a proposito del suo modo di fare politica:
“Socialista genuino, uomo di cultura moderna, l'On. Tremelloni
ha indicato, senza demagogia, quello che un governo socialista deve
fare (…), un dirigista, certo, ma un dirigista serio, non un
facilone né un demagogo”.
Tremelloni nacque a
Milano, in una famiglia povera e questo ha formato profondamente il
suo carattere e il suo modo retto di fare politica.
Come riporta Granata, nel
suo saggio, Tremelloni scrisse di sé: “Mi sembra molto
importante, nel lungo andare della mia vita, il fatto di essere nato
povero. Ciò ha giovato alla formazione del mio carattere. Io
benedico spesso di essere stato allevato in un ambiente di difficoltà
e ristrettezze materiali. Benedico questa scuola perché le
difficoltà e le ristrettezze non mi fanno più paura. Perché lo
sforzo per superarle diventa abitudine”.
Economista serio, fuori
da ogni ideologismo e dogmatismo e sempre dalla parte della
collettività, Tremelloni riteneva che fosse “Il proletariato
che può e deve alzare la bandiera dello sviluppo economico
nell'interesse di tutta la collettività”.
La sua politica fu sempre
in contrasto con quella dei conservatori di ogni colore “anche
se sono mascherati da etichette progressiste dei più vari movimenti
di destra e sinistra”, affermava.
Da adolescente aderì al
Partito Repubblicano Italiano di mazziniana e risorgimentale memoria,
così come Pietro Nenni. Partito della trasparenza e della
rettitudine per eccellenza, oltre che collocato all'estrema sinistra
democratica e laica.
Tremelloni si definiva,
già da allora, un risorgimentale fabiano, un umanitarista socialista
mazziniano e patriottico e tali idee si rafforzarono anche grazie
all'amicizia con il liberalsocialista Carlo Rosselli e il padre del
Socialismo italiano, Filippo Turati.
Idee che guardavano a un
libero mercato regolato a beneficio della collettività e non
dell'egoismo privato. Oltre ogni visione classista di matrice
marxista-leninista e contro ogni autarchismo di matrice fascista, che
Tremelloni avversò con tutto sé stesso, in particolare quando fu
chiamato ai suoi primi incarichi di governo, nella ricostruzione
dell'Italia, nel dopoguerra.
Un socialismo
municipalista e gradualista, il suo, che lo porterà a sostenere,
così come il liberalsocialista e amico Ernesto Rossi, la lotta ai
monopoli e la promozione della nazionalizzazione dei settori chiave
dell'economia, a partire dal settore energetico.
Un socialismo che lo farà
approdare, nel 1922, al Partito Socialista Unitario di Turati e
Treves e, nel dopoguerra, al Partito Socialista di Unità Proletaria
di Nenni e al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani di Giuseppe
Saragat, successivamente Partito Socialista Unitario e, infine,
Partito Socialista Democratico Italiano.
Si occupò, in gioventù,
di giornalismo, sia sportivo che di cronaca e, nel 1919 fondò, con
il fratello Attilio, la Casa Editrice Aracne e diresse la rivista
della Confederazione Generale Del Lavoro, “Battaglie sindacali”,
fino alla soppressione, durante il fascismo.
Nel 1926 fondò,
peraltro, con Rosselli e Pietro Nenni, la rivista socialista “Quarto
Stato”, anch'essa presto soppressa dal regime.
Ma la sua vera passione
sarà sempre l'economia. Laureatosi nel 1924 in Scienze economiche,
nel 1930, iniziò ad insegnare Economia politica presso l'Università
di Ginevra.
Furono quelli gli anni in
cui si dedicò maggiormente agli studi economici e meno all'impegno
politico, purtuttavia rimase sempre un antifascista della prima ora,
non mancando mai di rivolgere critiche alla politica economica del
governo mussoliniano, come fa presente il saggio di Granata.
Egli fu, peraltro, fra i
fondatori del giornale economico “Il Sole 24 Ore”.
Nel 1931, a Milano, fondò
il GAR, ovvero il Gruppo Amici della Razionalizzazione, ovvero una
sorta di centro studi economico, fortemente critico nei confronti
dell'economia autarchica del regime.
Riuscì, ad ogni modo, a
sfuggire alla condanna al confino, grazie al supporto della rete
antifascista.
Nel dopoguerra,
Tremelloni tornerà ad essere politicamente attivo, sebbene – come
ricorda Mattia Granata - considerasse gran parte dei programmi dei
partiti italiani piuttosto vaghi, nebulosi, poco concreti. Alla
ricerca più del consenso o di non perdere consensi, piuttosto che
fondati sulla ricostruzione del Paese, in favore della comunità.
Già allora egli mostrava
il suo carattere pragmatico e non ideologico e, con questo spirito,
contribuirà, nel 1947, a dare vita, con Saragat, al Partito
Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).
Partito di sinistra
laica, socialista democratico e oltre i blocchi contrapposti DC –
PCI.
All'indomani della
Liberazione, fu incaricato di ricoprire il ruolo di Vicepresidente
del Consiglio Industriale per l’Alta Italia, ove si occupò di
gestire e riattivare le strutture dell'economia produttiva.
E' in questo ruolo che
ebbe modo di applicare la sua visione economica, basata sulla
razionalizzazione della produzione, contro ogni forma di parassitismo
e di spreco di danaro e energie pubbliche, oltre che contro ogni
forma di protezionismo economico.
Ampliamento dei mercati e
produzione economica di massa di beni utili e non voluttuari, erano
le sue linee guida, per garantire una diffusa prosperità.
Il tutto, secondo
Tremelloni, era possibile attraverso un “ordinato e funzionante”
intervento pubblico nell'economia del Paese.
In questo senso, fu un
sostenitore della nazionalizzazione di ferrovie, compagnie
telefoniche e elettriche; dell'abolizione di ogni forma di monopolio
e della promozione della meritocrazia in ambito occupazionale.
La politica di
Tremelloni, in ambito economico, che era il cuore del programma del
socialismo democratico dell'epoca, rifuggiva, dunque, da ogni forma
di collettivismo classista e da ogni forma di liberalismo economico,
come ottimamente sottolineato dall'autore del saggio biografico.
E questa sarà la
politica che egli sempre porterà avanti, anche nei successivi
incarichi di governo, all'Industria e commercio (1947), al Tesoro
(1962), alle Finanze (1963) e alla Difesa (1966).
Una politica improntata
alla buona amministrazione, all'evitare sperperi e sprechi, al
risanamento dei conti pubblici ed alla razionalizzazione della spesa,
ma all'insegna dello spendere meno, ma meglio, in particolare in
settori importantissimi quali sanità e istruzione, sui quali
Tremelloni intese investire maggiormente.
Inutile dire che si
scontrò moltissimo con i politici della sua epoca, in tal senso.
Fu, come moltissimi
esponenti del suo partito, un sostenitore dell'adesione dell'Italia
al Patto Atlantico, ma allo stesso tempo fu, come tutti i socialisti
democratici, un sostenitore della pace, del disarmo e del dialogo e
della cooperazione internazionale con tutti i Paesi del mondo, oltre
che dell'autonomia decisionale dell'Italia.
Fu, da Ministro delle
Finanze, un sostenitore non solo della progressività delle imposte e
dell'abolizione dell'esenzione fiscale a deputati e senatori, ma
anche della lotta all'evasione fiscale e ciò gli attirò numerose
critiche, da destra e sinistra.
La sua linea rigorosa era
comprensibilmente giustificata proprio dal fatto che, grazie alle
imposte progressive, non solo le classi meno abbienti avrebbero
pagato meno, ma i servizi pubblici potevano essere resi più
efficienti, se tutti avessero pagato ciò che a ciascuno competeva.
Come fa presente Mattia
Granata nel suo saggio, Tremelloni mirava a moralizzare la vita
pubblica e politica e spesso si trovò a scontrarsi con una dura
realtà, fatta di malcostume diffuso, che spesso gli causò non poche
delusioni e persino problemi di salute.
Egli detestava
l'inefficienza, il malaffare, il trasformismo, la superficialità, la
degenerazione partitocratica.
Tutte cose che
riscontrerà anche da Ministro della Difesa, incarico che egli mai
avrebbe voluto assumere.
Pacifista della prima
ora, anche in quel caso, con grandi difficoltà, cercò di
razionalizzare la spesa militare, pur non riuscendovi e trovandosi
difronte a una realtà clientelare diffusa.
Tentò di riformare il
SIFAR, trasformandolo in SID e tentando di correggere quelle
deviazioni dei servizi segreti che stavano portando il Paese a subire
un colpo di stato di estrema destra, durante la crisi del governo
Moro-Nenni, nel 1964.
All'epoca, Tremelloni, fu
lasciato solo persino da molti suoi compagni di partito, essendosi
ormai inimicato gran parte dei poteri forti che si stavano
sostituendo allo Stato.
Nel saggio “Roberto
Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, Mattia Granata
riporta alcune significative annotazioni di Tremelloni, relative a
quel periodo: “Mi trovai intorno una cerchia abbastanza ampia di
nemici giurati. Non solo i colpiti (evidentemente
quelli del Sifar), ma anche i loro sovvenzionati (…)
legati da vincoli di complicità e omertà, mi attaccarono e fecero
attaccare con insolita durezza e con la diffusione delle più varie
calunnie contro di me attraverso la mafia solidale degli informatori
Sifar, che i servizi segreti avevano in ogni partito, in ogni agenzia
giornalistica, in ogni centro di informazione o centro politico. (…).
“Il Sifar si vendicava rabbiosamente (…) tutto lo Stato nello
Stato si ribellava contro chi aveva osato mettersi contro di lui”.
Da
allora, inizierà il declino politico di Tremelloni, sempre più
isolato anche all'interno di un un PSDI che stava perdendo gran parte
del suo glorioso passato socialista ed era in inevitabile calo di
consensi da parte dell'opinione pubblica.
Così
scriveva Tremelloni, all'indomani dell'esperienza al Ministero della
Difesa: “Il partito non mi difese dagli attacchi e dalle
calunnie, non fece quadrato attorno a me nella difficile e
spericolata traversia che mi aveva attirato gli odii di tutti gli
amici dei potentissimi servizi segreti (…) anche nei partiti di
sinistra”.
In un
PSDI guidato da Mario Tanassi, le personalità di alto profilo come
Tremelloni erano sempre più tenute ai margini (la stessa pasionaria
del socialismo, Angelica Balabanoff, negli anni, rimase sempre più
delusa dai vertici del partito dei socialisti democratici e non mancò
di sottolinearlo, nelle sue memorie).
Tremelloni
non venne più considerato in seno al PSDI e gli veniva preferita,
nel 1968, il sostegno – nel suo stesso collegio milanese - alla
candidatura di Eugenio Scalfari alle elezioni politiche e, solamente
grazie al ripescaggio dei resti, e all'interessamento di Pietro
Nenni, sarà rieletto, come fa presente il saggio di Granata.
Tremelloni, ad ogni modo,
non smise mai di scrivere, studiare e battersi contro il fenomeno
dell'inflazione, sottovalutatissimo dalla gran parte dei politici
dell'epoca. E ciò di pari passo con la denuncia tremelloniana di un
aumento degli sprechi nel settore pubblico.
Aspetti, entrambi,
peraltro, che porteranno alla crisi della Prima Repubblica, alcuni
decenni dopo e sui quali soffieranno sia gli opposti estremismi, che
i poteri forti internazionali e un'opinione pubblica manipolata dal
sistema mediatico. Portando, dunque, al crollo dei partiti
democratici di governo e alla fine dell'Italia per come l'avevamo
conosciuta.
L'ultimo atto politico di
Tremelloni fu la partecipazione al convegno milanese del PSDI “Una
politica contro l'inflazione: per lo sviluppo nella stabilità”,
del 1973 (degli atti di tale convegno, che conservo nella mia
biblioteca, parlerò in un successivo articolo, fra qualche tempo).
Dopo di allora, come
ricorda l'ottimo Granata, Tremelloni si allontanò dalla vita
pubblica. Continuò a vivere una vita molto frugale (cibandosi, come
sempre, di riso in bianco, una mela e acqua naturale) e a vivere
un'esistenza molto ritirata, fra i suoi libri, i suoi studi, la
compagnia della moglie Emma e della figlia Laura.
Molto lo aveva deluso la
politica del tempo, che aveva accantonato una personalità di
altissimo livello, che aveva dato molto al Paese e veniva ripagato
con l'oblio e l'isolamento. Specialmente da coloro i quali avrebbero
dovuto tenerlo in palmo di mano.
Come, del resto, accadde
nel Risorgimento all'Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi (che si
ritirò a Caprera, molto deluso, dimettendosi da deputato) e anche al
grande leader e partigiano Repubblicano Randolfo Pacciardi, altro
importante Ministro degli Anni d'oro dell'Italia del dopoguerra e che
da tempo denunciava la degenerazione della partitocrazia italiana,
sempre meno al servizio alla comunità. Ma che il PRI dell'epoca mise
in un canto.
Dei migliori, del resto,
pensiamo al Ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, che
fece chiudere i manicomi e si adoperò molto per il welfare, era
meglio scordarsi, per lasciare spazio alla “mafia dei
professionisti di partito”, come la chiamò lo stesso
Tremelloni.
Se vogliamo comprendere
le ragioni del disastro politico di oggi, italiano, Europeo e
Occidentale, della totale irresponsabilità e perdita di qualità del
personale politico degli ultimi trent'anni, non possiamo non
ragionare guardando al nostro passato.
E non possiamo non
onorare non solo la memoria di leader politici come Roberto
Tremelloni, ma anche apprenderne gli insegnamenti, i percorsi, la
lungimiranza e intelligenza.
Sono fra coloro i quali,
pur socialista fin da ragazzino, non credono assolutamente a una
rinascita del socialismo in Italia e Europa (e sicuramente non
considero socialisti i partitini che si dicono, oggi, tali). E ne ho
spiegato le ragioni, più e più volte. Molte di queste le ravvisò
già Tremelloni. Molte di queste le ravvisò comunque anche Bettino
Craxi, il cui PSI (l'ultimo dei partiti socialisti italiani, esistito
fino al 1992) raccolse gran parte dell'eredità socialista
democratica, ormai allo sbando.
Ciò che è possibile e
necessario fare è studiare, approfondire, ricercare, agire in modo
retto, austero, senza pregiudizi, senza tornaconti personali. Elevare
ed elevarsi oltre una massa e una politica resa incolta e arida.
“Roberto Tremelloni,
riformismo e sviluppo economico”, di Mattia Granata, scritto
benissimo e altrettanto ottimamente documentato, è, in questo senso,
un saggio preziosissimo.
Un documento raro,
fondamentale, non solo per gli storici, ma anche e soprattutto per le
nuove generazioni, siano esse formate da economisti, studiosi,
militanti politici, socialisti democratici (se ancora ne esistono,
specie fuori da partiti ormai senza alcun valore e fuori da elezioni
ormai totalmente inutili), giovani, meno giovani e quanti vorranno
recuperare il pensiero e l'azione di un grande uomo quale fu Roberto
Tremelloni.
Il Presidente della
Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, il 13 ottobre, ha presenziato
alla cerimonia di apertura del Vertice Mondiale delle Donne, tenutosi
a Pechino, presso il China National Convention Center.
Egli, ricordando come già
trent'anni fa, a Pechino, nel precedente vertice, fu fissato
l'obiettivo di “agire per promuovere uguaglianza, sviluppo e
pace”, ha avanzato quattro nuove proposte, in merito, ovvero
contribuire a creare un ambiente favorevole alla crescita e allo
sviluppo delle donne; generare una forte spinta per uno sviluppo
dell'universo femminile; delineare una governance per tutelare
diritti e interessi delle donne e scrivere un nuovo capitolo della
cooperazione mondiale in tale ambito.
Il Presidente Xi ha anche
sottolineato che, nella Repubblica Popolare Cinese, le donne
costituiscono oltre il 40% della forza lavoro totale. Nel settore del
web, più della metà degli imprenditori sono donne e il 60% dei
vincitori di medaglie nelle ultime quattro olimpiadi sono di sesso
femminile.
La Presidente della Nuova
Banca di Sviluppo dei Paesi BRICS, nonché ex Presidente del
Brasile, Dilma Rousseff, riferendosi a tale vertice mondiale, ha
sottolineato, fra le altre cose, che “Emancipare le donne è
fondamentale per costruire un futuro giusto, sostenibile e pacifico”.
Aggiungendo che “Lo
spirito di Pechino ci chiama non a commemorare, ma ad agire con
l'urgenza che l'uguaglianza di genere richiede” ed
ha sottolineato che “Non dobbiamo solo finanziare la
crescita, ma anche plasmare il tipo di sviluppo che perseguiamo: che
sia inclusivo, sostenibile ed equo”.
Il Nobel per la Pace lo
diedero anche a Kissinger. Nel 1973.
L'anno nel quale, anche
“grazie” a lui, gli USA sostennero, in Cile, il sanguinoso golpe
militare di matrice liberal capitalista guidato da Pinochet. Contro
il legittimo governo socialista di Salvador Allende.
Bella roba, vero?
A Gandhi invece niente.
Mai, nemmeno una medaglietta. Eh... troppo pacifico... troppo nemico
dei colonialisti britannici, si vede!
E a Obama? Altro Nobel. A
colui il quale farà bombardare la Libia laica e socialista di
Gheddafi.
Adesso a chi lo danno?
Al Presidente socialista
della Colombia, Gustavo Petro, impegnato a parlare di giustizia
sociale, pace e contro il regime bombardatore di Nethanyau? Macché,
gli USA gli hanno persino tolto il visto!
A Roger Waters? Altro
campione di lotta per i diritti umani e promozione della giustizia
sociale nel mondo? Macché! Altro “comunistone”, per gli “amici”
a Stelle e Strisce.
E quindi? A chi viene
dato?
Alla venezuelana Maria
Corina Machado (sic!).
Una che, nel 2002,
sostenne il golpe contro il governo eletto, socialista e democratico,
di Hugo Chavez. Golpe fortunatamente respinto dalla gran parte della
popolazione venezuelana.
Una amica degli USA,
impegnata contro i legittimi governi socialisti del Venezuela da
decenni.
Una che sostiene la
destra liberal capitalista peggiore e più estrema, come quella
dell'argentino Javier Milei e del partito di estrema destra spagnolo
Vox.
Una che sostiene le
privatizzazioni selvagge del patrimonio pubblico del suo Paese. In
primis l'industria petrolifera. Privatizzazioni che favorirebbero
chi? Le multinazionali USA in primis, ovviamente.
Quegli USA che minacciano
da sempre di invadere militarmente il Venezuela (e che da diverso
tempo schierano navi da guerra al largo delle coste caraibiche,
violando il diritto internazionale). E nel frattempo lo sanzionano.
Perché?
Perché è socialista.
Perché il socialismo, in Venezuela, vince le elezioni (comprese le
recenti Amministrative) fin dagli Anni '90, grazie al fatto che le
risorse pubbliche sono tornate nelle mani dei cittadini venezuelani.
Perché, laddove governa
il socialismo, arriverà sempre qualche estremista e fondamentalista
liberal capitalista, meglio se sostenuto dagli USA, a volerlo
distruggere.
Vi ricorda niente?
Vi ricordano niente i già
citati golpe contro Allende e Gheddafi? E quello più recente contro
il laico socialista Assad (per rimpiazzarlo con gli islamisti, sic!)?
E nel passato? Ne citiamo alcuni.
Contro l'argentino Juan
Domingo Peron; contro i governi socialdemocratici del Guatemala;
l'ingiusta clava giudiziaria contro il leader socialista brasiliano
Lula (tornato fortunatamente saldamente al governo); quella recente
contro l'ex Presidentessa peronista Cristina Kirchner e... la falsa
rivoluzione di “Mani Pulite” contro Bettino Craxi e i partiti
socialisti e democratici della Prima Repubblica Italiana! Che avevano
garantito stabilità, welfare, multilateralismo in politica estera.
Ma guarda un po'.
Siamo sempre lì.
Ogni falsa rivoluzione,
del resto, necessita dei suoi Capopopolo che siano osannati dai
grandi media di riferimento. Ad uso e consumo del sistema consumista.
Ad uso e consumo degli esportatori di (pseudo) “democrazia”,
ovvero di bombardamenti contro Paesi sovrani (la Jugoslavia... vi
ricorda niente? E l'Iraq?). Ovvero di destabilizzazioni di governi
legittimi, laici e socialisti.
Fatti passare dai media
per governi di “ladri”, “corrotti”, “dittatori”.
Per depredare quei Paesi
delle loro risorse e metterci, al governo, fantocci liberal
capitalisti di riferimento.
La storia è sempre la
stessa. E la conosciamo. Solo che, il Re, è da tempo molto più che
nudo.
Il mondo, nel frattempo,
ad ogni modo e fortunatamente, è anche sempre più cambiato.
Negli USA governano degli
anziani, peraltro sempre meno competenti. Che siano Biden o Trump. E
la loro economia è un disastro.
L'UE non ha alcuna
leadership seria e si appoggia ancora a degli USA rimasti fermi a una
sciocca e controproducente mentalità da Guerra Fredda. E a
un'economia fondata su sciocchi e controproducenti protezionismi in
stile ottocentesco.
Il resto del mondo, in
particolare il Sud del mondo, nel frattempo, rialza la testa. E'
stanco di prendere ordini dai bianchi colonialisti di Washington,
Bruxelles, Parigi o Bonn e dai loro “amichetti”.
E' il multilateralismo,
bellezza. E' il riscatto dei popoli oppressi. E' il nuovo Sol
dell'Avvenire.
E le bugie, le
falsificazioni, le invettive contro il socialismo ormai, stanno a
zero.
E' uscito ufficialmente
il numero 0 della nuova rivista di geopolitica, attualità e cultura,
“BRICS & Friends”.
La rivista, edita dalla
Mario Pascale Editore, che è anche il direttore editoriale, diretta
da Riccardo de Paola e con una redazione composta, oltre che dal
sottoscritto, anche dalla studiosa di America Latina e del mondo
arabo Maddalena Celano e dalla scrittrice e ingegnere Patrizia Boi,
si propone di collegare l'Italia all'universo BRICS e dare voce ai
Paesi del Sud del mondo.
La linea editoriale di
“BRICS & Friends” è, inequivocabilmente, multipolarista,
volta all'autodeterminazione dei popoli, all'anticolonialismo ed è
votata alla libertà, alla giustizia sociale, alla pace, alla
prosperità e al progresso dei popoli del pianeta.
Nel numero 0 sono
trattati argomenti quali l'eredità di Dostoevskij; le battaglie
della Presidentessa del Messico Claudia Sheinbaum; la competizione
turca, egiziana e israeliana nel Mediterraneo; la guerra
economico-politica contro il Venezuela socialista; il moderno
riformismo del Partito Comunista Cinese (scritto dal sottoscritto);
l'intervista all'Ambasciatore Bruno Scapini; l'etnopunk siberiano e
altro ancora.
86 pagine dense di
geopolitica, Storia, cultura, approfondimenti.
“BRICS & Friends”
è indipendente e vivrà di abbonamenti e raccolta pubblicitaria.
L'abbonamento ordinario
(sei numeri, più tutti i contenuti online), ammonta a 100 euro
annuali.
Quello sostenitore a 200
euro annuali.
Chiunque volesse
abbonarsi, può farlo attraverso un semplice bonifico bancario
intestato a Mario Pascale, inserendo come causale “Abb. BRICS &
Friends 2026 – Spedire a (inserire indirizzo di spadizione”, sull
IBAN: IT78F0760103200001070435589.
Come recita lo slogan
della rivista, parafrasando l'Eroe dei due Mondi, il socialista
repubblicano Giuseppe Garibaldi: “Il multipolarismo è il Sol
dell'Avvenire”!