“Sono il leader dei leader arabi, il
re dei re dell'Africa e l'imam del musulmani”, così si presentava
il colonnello e Raìs libico Mu'Ammar Gheddafi ad Angelo Del Boca,
massimo storico del colonialismo italiano.
Gheddafi il leader, il rivoluzionario
capace – attraverso una rivolta incruenta e senza alcun spargimento
di sangue – di abbattere, nel 1969, la monarchia nel suo Paese -
asservita a statunitensi ed inglesi - e a far riappropriare il popolo
libico delle sue risorse naturali ed energetiche.
L'autore del “Libro Verde”,
pamphlet ideologico sulla Terza Via Universale oltre capitalismo e
socialismo reale, per la democrazia diretta dei cittadini nella vita
pubblica e l'autogestione delle imprese, fu anche autore, nel 1990,
di “Fuga all'inferno e altre storie”, pubblicata per celebrare la
vittoria delle truppe libiche su quelle italiane nel 1915, guidate
dal colonnello Miani.
“Fuga all'inferno” è una raccolta
di dodici racconti, che furono ripubblicati in Francia nel 1996 e
successivamente, nel 1998, in Canada e Stati Uniti d'America.
Curiosamente, in Italia, sono stati pubblicati solo nel 2006 e ad
opera della piccola casa editrice del quotidiano “il manifesto”,
la “manifestolibri”, con introduzione di Valentino Parlato il
quale, non a caso, ne denuncia il ritardo di avvenuta pubblicazione
in un Paese come il nostro, così vicino geograficamente alla Libia e
per molto tempo in sintonia con il governo di Tripoli.
In questo testo il Raìs libico si
propone nella veste di “re filosofo” o, come amava egli dire, di
“pastore del deserto”. Si tratta infatti di una raccolta di
riflessioni e parabole, scritte con linguaggio semplice e didattico,
dal contenuto sociale, politico, antropologico, laico e spirituale al
contempo.
Si parte da una critica serrata alle
città, all'urbanizzazione, alla città come “tomba delle relazioni
sociali”, alla necessità del contadino e del povero a trasferirsi
in città per trovare un lavoro, sradicato dalla campagna, dalla vita
semplice ed armoniosa del villaggio, travolto da una modernità
senz'anima, spintonato a destra e a manca da altri poveri diavoli
come lui, stipati nei mezzi pubblici o travolti dalla strada, dal
traffico, dalla velocità imposta dall'urbanizzazione.
Gheddafi, diversamente, esalta la vita
del villaggio, semplice, quella vita che egli stesso, figlio di
beduini di Sirte ha vissuto sin da bambino. Una vita più solidale,
non legata al superfluo ed all'accumulo della ricchezza.
Gheddafi esalta poi la ricchezza della
terra e dell'ambiente, che va preservato dall'uomo e dal sistema
capitalistico. Egli, dunque, rifugge il progresso, l'urbanizzazione e
la tirannia della maggioranza per rifugiarsi in quello che definisce
l'inferno, ovvero l'utopia. Egli ama le masse, ma al contempo
le teme e teme che queste possano essere influenzate tanto dal
progresso scientifico quanto dalla superstizione religiosa.
In alcune sue parabole, non a caso,
critica le superstizioni religiose di alcuni gruppi musulmani e
arabi, i quali preferiscono seguire e interpretare a loro modo le
sacre scritture dell'Islam, finendo per generare fra loro guerre di
religione senza fine, anziché ricercare l'unità dei popoli arabi ed
islamici, contro i nemici colonialisti ed imperialisti.
Interessante è il racconto di Gheddafi
sulla morte. La riflessione su di essa è un racconto intimistico,
che ricorda le vicende di suo padre, soldato libico contro le truppe
fasciste durante la Seconda Guerra Mondiale. Gheddafi si chiede se la
morte sia maschio o femmina, ovvero se essa è maschio è necessario
combatterla, mentre se è femmina è necessario abbandonarvisi, sino
all'ultimo respiro. E dunque protagonista del suo racconto è il
padre, il quale considera la morte come principio maschile e quindi
lotta contro di essa sul campo di battaglia, sfuggendo alle
pallottole fasciste ed ai bombardamenti. Ma è costretto ad
abbandonarsi ad essa nel momento in cui si ammala, esalando il suo
ultimo respiro l'8 maggio 1985. Gheddafi a tal proposito scrive:
“Dovete combattere contro la morte per prolungare la vostra
esistenza (…). L'atteggiamento più giusto è la resistenza,
perché la fuga, anche all'estero, non sottrae alla morte (…). Ma
quando la morte si indebolisce, e si cambia in una femmina, né
rivoluzionaria né occidentale, diventando una donna arrendevole (…),
si deve solamente soccomberle, fino all'ultimo respiro.
Emblematico quanto
scrive Valentino Parlato nell'introduzione al testo, che, come
dicevamo, fu pubblicato nel 2006, a proposito di una possibile morte
violenta del Raìs: “...se un giorno Gheddafi fosse travolto da
una protesta popolare sono sicuro che non si stupirebbe. Il beduino
del deserto sa più cose dell'intellettuale di città: sa che la
politica non è solo, non può essere, calcolo politico dei
politicanti, ma è fatta di passioni e di pulsioni di massa, che
difficilmente un regista politico può orientare”.
Mu'Ammar
Gheddafi fu barbaramente ucciso non già dalla protesta popolare, ma
dal calcolo politico di francesi, statunitensi e dai loro alleati. Il
leader e teorico della Jamahiriya, ovvero del governo delle masse, è
stato ucciso dalla realpolitik e dai nemici del suo stesso popolo.
Oggi è
bene ricordarlo non solo come leader, ma anche come autore di
parabole e di racconti che possono illuminare le menti di un
Occidente decadente e di un mondo islamico preda del fondamentalismo
che si sta allontanando sempre più dalle sue antiche radici
spirituali.
Luca
Bagatin
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