Populismo, termine ed
aspetto ritenuto, nella società capitalista e liberale, ovvero nella
società della crescita illimitata e del godimento assoluto governato
dalle élite, temibile e da contrastare.
Esso è ritanuto temibile
e da contrastare in quanto rappresenta la fondamentale rottura ideale
e morale dei popoli e degli oppressi dalle élites, le quali vedono
proprio in tale rottura, la fine del loro dominio economico, sociale,
politico e morale sui cittadini medesimi.
Proprio di populismo
tratta l'ultimo saggio del filosofo francese Alain De Benoist, edito
alcuni mesi fa in Francia con il titolo "Le Moment populiste -
Droite-Gauche c'est fini !" dalle edizioni Pierre-Guillaume e
pubblicato, con traduzione italiana, dalla Arianna Editrice con il
titolo "Populismo".
De Benoist, fine studioso
e critico del capitalismo nonché sostenitore della democrazia
diretta e della decrescita economica, intende, con questo saggio,
spiegare la nascita di tale fenomeno dalle origini sino agli sviluppi
che esso ha avuto ai giorni nostri in conseguenza di eventi
importantissimi quali: la crisi economica, la conseguente
disaffezione dei cittadini verso la politica, il referendum sulla
Brexit e la critica della stragrande maggioranza dei cittadini nei
confronti dei governi ed in particolare dell'Unione Europea,
organismo non democratico e sovranazionale.
Il populismo, spiega De
Benoist, nasce fra il 1860 ed il 1880 in Russia grazie alla spinta
dei narodniki (da narod, ovvero popolo), ovvero dei socialisti russi
che vollero alfabetizzare le masse contadine ed oppresse e proposero
una riforma agraria in senso socialista in quanto ritennero che i
contadini fossero l'unica classe rivoluzionaria in grado di opporsi
all'occidentalizzazione della Russia ed all'espansione del
capitalismo. I narodkini fondano il loro progetto, dunque, all'inerno
della comunità rurale tradizionale come sistema di solidarietà e
mutua assistenza. Uno fra i maggiori esponenti del populismo russo fu
Aleksandr Herzen, collaboratore in seguito tanto di Giuseppe Mazzini
in Italia (scrisse infatti diversi articoli sul mazziniano "Italia
del popolo") che di Pierre-Joseph Proudhon in Francia. Il
contributo del populismo russo allo sviluppo della Prima
Internazionale dei Lavoratori, di matrice socialista, mazziniana e
anarchica, è dunque più che evidente.
Nello stesso periodo,
negli Stati Uniti d'America, si svilupperà un movimento populista
pressoché simile. Fondato nel 1867 da Oliver Hudson Kelley, il
movimento detto dei "grangers", avrà come obiettivo quello
di ampliare i diritti dei lavoratori agricoli e di salvaguardare
l'autonomia dei piccoli proprietari terrieri allo scopo sia di
emanciparsi dagli interventi dello Stato che tentando di mettere fine
alla speculazione ed all'industrializzazione di massa. Sull'onda di
tale movimento, nel 1891 sarà fondato il People's Party, partito
populista agrario.
Successivamente, ma
parecchi decenni dopo, anche in America Latina si svilupperà una
interessante forma di populismo attraverso il peronismo, anch'esso
facente perno sulla riforma agraria, oltre che proponendo l'accesso
alla cittadinanza politica delle classi popolari, ovvero i cosiddetti
descamisados.
Il populismo, dunque,
lungi dall'avere una connotazione di destra o di sinistra oppure una
connotazione negativa, è una forma di contrasto al capitalismo e di
promozione del socialismo agrario, comunitario e opposto ad ogni
forma di accumulo di capitale e di potere politico nelle mani di
pochi oligarchi. Il populismo è dunque una delle più moderne forme
di democrazia attiva e partecipativa.
Come scrive Alain De
Benoist nel suo saggio, è dunque del tutto errato dire che il
populismo esprime disgusto o rifiuto della politica, bensì,
all'opposto, esso pone unicamente una critica radicale alla classe
politica, alla quale di rimprovera di non fare più politica, bensì
di difendere interessi oligarchici e particolari. Il populismo è
dunque una forma di protesta contro la spoliticizzazione degli affari
pubblici e contro la delega di questi a tecnici o esperti (si pensi
all'Italia del Governo Monti, composto da "tecnici ed esperti"
non eletti da nessuno).
Il populismo, dunque,
rappresenta una richiesta di democrazia, ovvero di partecipazione dei
cittadini alle questioni che li riguardano. Ed il massimo della
democrazia non risiede certo nel suffragio universale o nei sistemi
elettoralistici, bensì coincide con il massimo della partecipazione
dei cittadini alla vita pubblica e politica ed in questo senso non
può che criticare il sistema liberale capitalista e reppresentativo,
in quanto il populismo richiede democrazia diretta e partecipativa.
De Benoist, nel suo
saggio, rivela come fu nel 2005 che in Francia si sviluppò una forte
spinta populista, ovvero allorquando prevalse il NO al referendum sul
progetto di trattato costituzionale europeo. Allora si rilevò quanto
fosse ampio il fossato ideologico e sociologico fra il popolo e le
élite.
Altro aspetto rilevato
dall'Autore, che mise e sta sempre di più ponendo un fossato fra
popolo ed élite, è l'immigrazione, favorita dai circoli affaristici
ed economici in nome della libera circolazione di persone e capitali:
incontrollata, di massa, massiccia e rapida tale da generare nuove
guerre fra poveri già aggravate dal sistema economico capitalista.
Ed i fenomeni di terrorismo islamico non possono che inasprire tale
situazione.
Non ultimo il fenomeno di
un'Unione Europea e di una globalizzazione che hanno tolto
oggettivamente sovranità agli Stati e sempre di più potere ai
cittadini e, oltre a ciò, la dipendenza degli Stati - non più in
grado di affrontare la crisi econimica - dai mercati finanziari,
tanto quanto già precedentemente dipendenti in campo geopolitico e
militare dalla NATO e sottomessi da vincoli di bilancio europei
sempre più stringenti e portatori di austerità.
In tutto ciò i popoli
non possono che sentirsi sempre più oppressi, meno liberi di
esprimersi e di poter prendere parte alla vita pubblica ed al loro
destino.
"La
globalizzazione" - scrive De Benoist - "produce
molti vincitori tra le elite, ma milioni di perdenti nel popolo, il
quale comprende per di più che la globalizzazione economica apre la
strada alla globalizzazione culturale, suscitando al tempo stesso
nuove frammentazioni".
Ed è così che la gran
parte dei cittadini, in Occidente, ha smesso di andare a votare, ha
preferito astenersi ed il voto è diventato sempre meno identitario e
sempre più liquido, di pari passo con la liquidità dei partiti di
massa, i quali hanno perduto ogni loro connotazione: destra e
sinistra, socialisti e liberali, sono sempre più simili ed
assimilati al sistema centrista, borghese, elitario e capitalista.
In particolare De Benoist
rileva come la destra abbia rinunciato alla difesa del
"popolo-nazione" (addio al gollismo), mentre la sinistra ha
rinunciato al "popolo-classe operaia" (addio al
socialismo). E così, via via, l'elettorato ha sempre di più
preferito rivolgere le proprie attenzioni verso partiti
dichiaratamente populisti quali Podemos in Spagna, Front National e
France Insoumise in Francia, Movimento Cinque Stelle in Italia e così
via.
Destra e sinistra,
diversamente, avendo abbandonato in Europa i valori di sovranità,
patria e socialismo, si sono unite in una sorta di partito unico
liberale, politicamente corretto, capitalista, le cui uniche
ideologie sono il "godere senza limiti", "vietato
vietare", "crescita economica", "governance",
"consumare senza limiti", "flessibilità" e così
via. Il tutto in barba all'ambiente, ai diritti dei lavoratori, dei
disoccupati e dei precari in costante aumento.
Non stupisce dunque Alain
De Benoist il fatto che un "socialista" come Dominique
Strauss-Kahn sia stato chiamato a presiedere il Fondo Monetario
Internazionale per realizzare politiche liberiste (sic !).
Nè stupisce De Benoist
il fatto che la stragrande maggioranza degli operai e dei salariati
francesi (ex comunisti ed ex socialisti) oggi voti Front National,
così come la maggioranza di essi in Gran Bretagna abbia votato in
favore della Brexit. Ovvero in opposizione rispetto alle élite di
destra e sinistra.
La denuncia del
liberalismo di De Benoist nel suo saggio è più che evidente, in
quanto egli afferma come "Il liberalismo, affermando che le
azioni egoistiche in definitiva giovano al benessere di tutti,
contribuisce alla distruzione delle basi morali". Infatti
esso ha distrutto ogni vincolo solidaristico, affettivo, famigliare,
precarizzato il lavoro ed ogni rapporto umano interpersonale e
abolito ogni forma di stabilità e di lealtà. Ha favorito la
concorrenza e dunque la lotta di tutti contro tutti per l'ottenimento
di un benessere effimero.
L'Autore rileva che
essere liberi non significa liberarsi della propria identità e
tradizione (magari attraverso la libertà dei costumi e la
trasgressione ad ogni costo, oppure attraverso il cosmopolitismo o la
virtualità), bensì aderendo e partecipando direttamente alla
propria realtà e comunità, ai suoi luoghi, situazioni, modi di
vivere. Ovvero l'esatto opposto rispetto a quanto imposto dalla
società liberale, che addomestica il cittadino per meglio renderlo
assimilabile alle regole dell'economia di mercato. E qui De Benoist
cita Guy Debord, fondatore dell'Internazionale Situazionista:
"L'economia trasforma il mondo, ma soltanto il mondo
dell'economia".
Egli rileva come dagli
Anni Settanta sino ad oggi la situazione materiale delle persone si
sia via via degradata. La povertà si è urbanizzata, è ringiovanita
(i giovani sono più poveri delle generazioni precedenti) e
femminilizzata. Il numero dei disoccupati e dei precari è peraltro
in continuo aumento e, spesso, anche coloro i quali lavorano sono
sottopagati. Purtuttavia la società, nei suoi costumi, sembra sempre
più "libera" e viene percepita come la più "democratica"
e "prospera". E' in sostanza il trionfo dell'individualismo
moderno di matrice liberale e progressista, che purtuttavia finisce
per opprimere i popoli, ovvero i loro intrinseci bisogni di
socialità, solidarietà, stabilità, comunità e dunque di autentica
libertà.
Nel suo saggio De Benoist
pone altresì una critica al sistema della "democrazia
liberale", la quale si traduce nel parlamentarismo
rappresentativo, ovvero una forma che non ha in sé nulla di
democratico in quanto non permette al popolo di auto-rappresentarsi,
secondo peraltro i postulati di Rousseau e di Proudhon. La
partecipazione del popolo agli affari pubblici è respinta per la sua
presunta "incompetenza", ma chi può stabilire se un
politico sia più "competente" di un cittadino qualsiasi ?
Non a caso i primi liberali erano contrarissimi al suffragio
universale e promuovevano un sistema censitario in quanto - in questo
modo - avrebbero inibito la politica alle classi ritenute
"pericolose". La "democrazia" rappresentativa
funge così da "filtro" della sovranità popolare e ne
riduce la portata. Ovvero la "democrazia" rappresentativa,
rileva De Benoist, non è altro che una forma di oligarchia. Per
porre fine a tale oligarchia l'Autore cita il filosofo greco di
ispirazione socialista libertaria Takis Fotopoulos, il quale parla di
"democrazia inclusiva" e, proponendo localismo e decrescita
economica, fa dell'uguaglianza economica la base per l'uguaglianza
politica e dunque per la democrazia autentica. Fotopoulos, in
particolare, sostiene un'economia senza Stato, senza danaro e senza
mercato e propone la democrazia diretta ed auto-rappresentativa su
base localista e federale.
De Benoist si pone dunque
in alternativa rispetto ad ogni concetto di "governance",
molto di moda negli ultimi anni, ovvero di "pensiero contabile"
che obbliga i governi ad attuare scelte tecniche in linea con le
esigenze del mercato o della finanza. La "governance" è
infatti il trionfo dell'interesse particolare sul valore universale e
mira alla privatizzazione della società sul modello del mercato. Ed
il mercato non va affatto d'accordo con la democrazia, ma tende a
subordinarla alle sue regole esigendo, di volta in volta:
soppressione delle frontiere, liberalizzazione dell'economia, degli
stili di vita, della precarizzazione dei rapporti umani e affettivi,
dello sradicamento identitario e così via.
Alain De Benoist fa
dunque suo il pensiero di un altro importante filosofo francese,
ovvero l'orwelliano Jean-Claude Michéa. Michéa, in passto iscritto
al Partito Comunista Francese (partito che non si è mai definito di
sinistra, salvo negli ultimi decenni) e tuttora socialista non
pentito e proprio per questo critico nei confronti della sinistra.
Michéa rileva come la
sinistra si sia via via allontanata dai valori popolari allorquando
ha preferito abbracciare l'ideologia liberale e borghese del
progresso e della crescita illimitata. Del resto nessun esponente
socialista originario si è mai definito di sinistra: né Marx, né
Proudhon, né Pierre Leroux, né Sorel e così via e nessuno di
costoro si è mai rifatto all'ideologia Illuminista, preferendo
diversamente la difesa delle classi popolari (Quarto Stato,
contrapposto al Terzo Stato) e delle comunità arcaiche contadine ed
operaie, unite da un legame solidaristico e di mutuo aiuto e libero
da ogni forma di interesse economico tipico della mentalità
borghese, liberale e illuminista.
Come spiega Michéa,
scendendo a compromessi con le classi borghesi "di sinistra",
durante il periodo dell'affaire Dreyfuss ed il rischio di un colpo di
stato monarchico, le classi popolari ed i socialisti hanno iniziato
ha perdere ogni connotato originario sino ad aderire completamente al
liberalismo economico e dunque al liberalismo culturale, perdendo
così ogni solidarietà di classe e comunitaria ed avviando il
socialismo a trasformarsi nell'attuale indistinto progressismo,
abbracciando di fatto quello che è oggi il capitalismo assoluto
finanziario. La sinistra borghese ha finito così per diventare
razzista nei confronti del popolo ed è diventata la maggiore
paladina dello sradicamento forzato dei popoli (immigrazionismo,
soppressione delle frontiere, godimento senza limiti ecc...). Tutti
aspetti peraltro denunciati in Francia da Michel Clouscard e in
Italia da Pier Paolo Pasolini, cantore della civiltà contadina,
arcaica, popolare e genuina contrapposta all'urbanizzazione forzata
delle città, identificata come l'avvento di un nuovo fascismo
(ovvero del liberalismo assoluto).
Il pensiero di Michéa,
abbracciato in toto da De Benoist, si iscrive dunque in un antico
filone portato avanti non solo dai Clouscard e dai Pasolini, ma anche
dallo statunitense Christopher Lasch, promotore di un socialismo
populista e comunitario; dallo scrittore G.K. Chesterton,
propugnatore del distributismo; da Antonio Gramsci, che sottolinea
l'importanza dell culture popolari; dai film di Ken Loach; da Serge
Latouche; dal filosofo argentino peronista Ernesto Laclau, ispiratore
del movimento cittadino spagnolo Podemos e del concetto di democrazia
radicale e da molti altri. Un filone a pieno titolo populista e
anti-liberale, ovvero democratico, comunitario, socialista
originario.
Il saggio "Populismo"
di Alain De Benoist, del quale ho tentato qui di riassumere i
concetti fondamentali, parla di questo e molto altro. Ovvero della
necessità dei popoli e dei poveri di riacquistare la sovranità
porduta. Di pensare e ripensare a nuove forme di democrazia diretta e
di economia fondate sul dono (anche su questo Jean-Claude Michéa ha
scritto moltissimo), sulla decenza comune, sul senso di comunità e
dunque sul vero senso di libertà. Tutti aspetti oggi negati dal
subdolo totalitarismo liberal-capitalista fondato sull'egoismo,
l'interesse e dunque sull'odio, la violenza, la concorrenza e lo
sradicamento di ogni identità.
Luca Bagatin
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