Ve le ricordate le cosiddette “primavere” arabe?
Confusione imperante dei sommovimenti eterodiretti da Stati Uniti
d’America, Regno Unito e Francia nell’Africa settentrionale da
gennaio 2011, che furono chiamate fraudolentemente “rivoluzioni”.
Al contrario, come abbiamo ben visto, il sistema di produzione, nel
Nord Africa è rimasto invariato ed, anzi, in Libia all’equilibrio
di Gheddafi è succeduto il tribalismo di Sarkozy, con la benedizione
di Washington, Parigi e Londra. L’Italia s’è dovuta accodare,
minacciata dal bombardamento degli “alleati” UE sulle
installazioni ENI: eventuale fuoco amico a firma Parigi e Londra (a
quel tempo non ancora in odore di Brexit).
Leggiamo le chiavi di
lettura “occidentali” dei fenomeni che avevano ancora sconvolto
l’arco mediterraneo meridionale col tentato spaccio delle sedizioni
in fattori richiamanti masse di musulmani che si stavano ribellando.
Invece secondo certa stampa embedded-copia-e-incolla, essi, i
rivoltosi, auspicavano forme di governo liberal-democratiche
multipartitiche in cui trionfassero anche là gli dèi del
capitalismo che vediamo adorare ogni giorno. Si sono adoperati
vocaboli assurdi nel contesto – rivoluzione, controrivoluzione,
primavere, agorà, dittature sultanali, nuovi “89”, laicità,
uscita dal Medioevo, entrata nella modernità, tecnologia come
progressismo (scordandosi di DĀ’IŠ e al-Qā’ida), ecc. – a
masse che con l’Occidente nulla hanno avuto e hanno a che spartire,
salvo colonizzarle e depredarle, e oggi in comune posseggono solo
smartphone e internet.
Le “primavere” arabe miravano
innanzitutto a distruggere il governo siriano e laico di Baššār
Ḥāfiẓ ‘Alī al-Asad, alleato dell’Iran e testa di ponte
della Via della Seta. Dopo tentativi durati tredici anni al-Asad è
caduto l’8 dicembre 2024 in quest’ultima scaturigine delle infami
“primavere” arabe, lasciando Israele in piena preoccupazione per
le alture del Golan.
Le alture del Golan rappresentano un baluardo
di difesa a settentrione, e come ci dice il Prof. Ahron Bregman, ne
La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati
(Einaudi, Torino, 2017): sono ben cinquant’anni che nelle alture
del Golan, non si spara un colpo. Questo tipo di modus vivendi era
possibile col laico al-Asad, e no di certo con l’attuale governo
siriano formato da giadisti e salafiti.
Andiamo con ordine. La
politica estera turca nei confronti del Medio Oriente dal 2013, sia
in termini di grado di attività da parte di Ankara, sia in termini
di cambio di direzione, va da una politica che fa ampio uso degli
strumenti del soft power a una politica che si affida maggiormente
agli strumenti dello hard power. Le cosiddette “primavere” arabe
e le tendenze intra-turche a partire dal 2013 hanno portato Erdoğan
a creare una sintesi unica nella storia della Turchia. Dalla politica
estera repubblicana ha preso il nazionalismo, la militarizzazione e
il sospetto verso il resto del mondo, e dal passato ottomano ha preso
la dimensione religiosa, l’elemento di espansione e di
revisionismo. Trattandosi di una sintesi, a volte prevale una
dimensione e talvolta un’altra a seconda del soggetto e del
periodo. Sebbene il pericolo per Israele sia chiaro se la dimensione
islamica fosse più prominente nella politica estera turca, va anche
notato che esistono pericoli derivanti da una linea
nazionalista-indipendente nella politica estera turca, poiché la
porta in conflitto con alcuni degli alleati di Israele. Inoltre, la
linea nazionalista-indipendente incoraggia la Turchia a diventare
sempre più autosufficiente e ad autoprodurre sistemi d’arma
avanzati che, anche se non rappresentano una minaccia diretta e
immediata per l’Israel Defense Forces, possono raggiungere elementi
ostili a Israele.
Dalla politica estera repubblicana ha preso il
nazionalismo, la militarizzazione e il sospetto verso il resto del
mondo, e dal passato ottomano ha preso la dimensione religiosa,
l’elemento di espansione e di revisionismo. Trattandosi di una
sintesi, a volte prevale una dimensione e talvolta un’altra
dimensione, a seconda del soggetto e del periodo.
La Turchia ha
fondato un’entità nel nord della Siria controllata esclusivamente
da Ankara, ed Erdoğan non immaginava che avrebbe avuto l’opportunità
di proseguire verso Damasco attraverso le organizzazioni
dell’opposizione siriana. Ankara non ha perso occasione quando la
Russia, impegnata in Ucraina, e l’Iran, in conflitto con Israele
sono usciti per il momento dalla scena. Di conseguenza, la Turchia
sunnita sostituisce Russia cristiana e Iran sciita quale protettore
della Siria.
La percezione prevalente in Medio Oriente, a partire
dall’amministrazione Obama I e II e poi durante l’amministrazione
Trump I, secondo cui gli Stati Uniti d’America stavano cercando di
ridurre il proprio coinvolgimento nella regione, ha creato un vuoto
che ha incoraggiato i Paesi della regione, e in particolare Ankara,
ad intraprendere azioni indipendenti. In poche parole, gli strascichi
delle “primavere” arabe si sono trasformate in azioni
antisraeliane sotto regia turca.
Oltre a ciò, la comprensione ad
Ankara dei cambiamenti avvenuti nella struttura del sistema
internazionale, da un sistema unipolare in cui vigeva il predominio
americano ad un sistema multipolare, in cui i fattori su cui si
basano possono e devono essere diversificati, porta la Turchia a
intraprendere sempre più azioni oltre ciò che ci si potrebbe
aspettare da un membro fedele della NATO. La Turchia attua una forma
doppiogiochista: islamista ma con propensione entrare nell’Unione
Europea.
Uno dei termini che spesso compaiono nella descrizione
della politica estera della Turchia è “neo-ottomanismo”. Sono
molti i commentatori, sia nei media che nel mondo della ricerca, che
amano chiamare Erdoğan “Sultano” e definiscono la sua politica
neo-ottomana. L’uso del termine neo-ottomanesimo non è iniziato
con Erdoğan, ma è stato ampiamente utilizzato per la prima volta
per descrivere i cambiamenti introdotti dal presidente turco Turgut
Özal nella politica turca negli anni Ottanta. Viene a indicare
cambiamenti rivoluzionari rispetto alla politica repubblicana della
Turchia dai tempi di Atatürk, che sosteneva il mantenimento dello
statu quo, e si riferisce alla crescente attività della Turchia
nella regione e all’ingresso di elementi pan-turchi e islamici
nella narrativa politica.
Oggi, l’uso dell’espressione
neo-ottomanesimo presso l’opinione pubblica internazionale è
spesso pronunciata da elementi ostili alla Turchia, che la utilizzano
per indicare intenzioni espansionistiche turche o per condannare
misure non in linea con gli interessi dell’Occidente, a cui la
Turchia aspira a farne parte. Nella presentazione estrema del
termine, viene utilizzato per accusare Erdoğan di voler stabilire
un’area sotto il controllo o l’influenza turca sulla falsariga
del vecchio impero ottomano, o addirittura di “ristabilire l’impero
ottomano”.
Il passato ottomano occupa sempre più spazio
nell’intera società turca e in particolare nelle dichiarazioni di
Erdoğan, che lo usa per giustificare alcune delle sue attività,
anche nella sua politica estera.
Tuttavia, si può sostenere che
la politica estera turca è neo-ottomana nel senso di attivismo e di
maggiore attività turca, ed è anche impossibile negare l’ombra
ottomana presente in diversi passi turchi sulla scena internazionale.
Sebbene la dirigenza turca eviti di usare l’espressione
neo-ottomanesimo, soprattutto per definire le proprie politiche, il
passato ottomano occupa sempre più spazio nell’intera società
turca e in particolare nelle dichiarazioni di Erdoğan, che lo usa
per giustificare alcune delle sue attività, anche nella sua politica
estera. Ad esempio, il presidente turco ha giustificato la sua
posizione riguardo a Gerusalemme nell’ottobre 2020 con le parole:
“In questa città che abbiamo lasciato in lacrime durante la prima
guerra mondiale, si possono ancora vedere i resti della resistenza
ottomana. Pertanto, Gerusalemme è la nostra città, è la nostra
città”. È anche possibile notare l’importanza delle aree che
appartenevano all’Impero Ottomano negli sforzi internazionali
turchi in Siria, Iraq, Libia, nel Mediterraneo orientale e, in una
certa misura, nei Balcani. La nostalgia per l’Impero Ottomano gioca
un ruolo importante anche nella politica di soft power della Turchia,
come dimostrato dal grande successo delle serie televisive “storiche”
turche in Medio Oriente, nel mondo musulmano e persino nei
Balcani.
Ad esempio, le operazioni turche nel nord della Siria e
nel nord dell’Iraq si svolgono in aree che il Movimento nazionale
turco ha definito come terra turca, finché Atatürk non ha accettato
di rinunciarvi. Per molti sostenitori di Erdoğan, l’ingresso delle
forze turche in quelle zone è un risultato che compensa questa
concessione. Allo stesso modo, i problemi relativi alla delimitazione
dei confini marittimi nel Mediterraneo orientale derivano da alcune
disposizioni del Trattato di Losanna (24 luglio 1923), firmato da
Atatürk dopo la Guerra d’indipendenza turca. Anche in questo
ambito Erdoğan può presentarsi un passo avanti rispetto al suo
famoso predecessore. In molti casi, la visione storica del presidente
turco è quella di paragonarsi al laico Atatürk in un modo che lo
lusinga più che essere un “nuovo sultano”.
In conclusioni
desidero riaffermare e ripetere che – mio parere – le “primavere”
arabe sono state un dono occidentale al neo-ottomanesimo turco, per
tenere a freno le spinte di Ankara verso l’UE. Non ci voleva un
genio per capire che tutto questo si sarebbe trasformato
successivamente in manovre antisraeliane.
Giancarlo Elia Valori
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