martedì 30 aprile 2019

Radio Berlin International 1978


 
 

Venezuela. Guaidò incita i militari alla rivolta. Il governo socialista resiste. Articolo di Luca Bagatin tratto da "Alganews"

Nuovo tentativo di destabilizzazione del Venezuela. Nuovo tentativo di incitamento alla rivolta da parte dell'ex deputato Juan Guaidó, in un messaggio video assieme a Leopoldo Lopez, ex leader dell'opposizione, già agli arresti domiciliari con le accuse di istigazione alla violenza e danneggiamento della proprietà pubblica nell'ambito delle proteste di piazza del 2014. Guaidó questa volta si rivolge ai militari, che invita a ribellarsi al governo legittimamente eletto e guidato dal Presidente socialista Nicolas Maduro.
E' in atto un tentativo di golpe, lo stiamo sventando”, afferma il Ministro della Comunicazione Jorge Rodriguez.
Il governo, attraverso il suo Ministro, parla di un piccolo gruppo di soldati traditori che si sono posizionati “nella zona di Altamira per promuovere un colpo di stato contro la Costituzione e la pace della Repubblica”. E ha proseguito affermando: “A questo tentativo si è unita la destra estrema golpista e assassina che da mesi aveva annunciato la sua agenda violenta. Chiediamo alle persone di rimanere in allerta in modo che, insieme alla gloriosa Forza Armata Nazionale Bolivariana, sconfiggeremo il tentativo di golpe e preserveremo la pace”.
Il Presidente dell'Assemblea Costituente, Diosdado Cabello, ha chiamato a raccolta i sostenitori del chavismo presso il palazzo presidenziale di Miraflores, affermando, parlando alla tv di Stato VTV: “Ora siamo schierati e invitiamo tutto il popolo di Caracas a venire qui a Miraflores (…). Vediamo cosa possono fare contro il nostro popolo”, rassicurando di avere l'esercito a sostegno del governo, così come ha fatto il Ministro della Difesa venezuelano, Vladimir Padrino, affermando: “Respingiamo questo movimento golpista. Gli pseudo leader politici che si sono posti in prima linea in questo movimento sovversivo hanno usato truppe e polizia con armi da guerra su una strada pubblica della città per creare ansia e terrore”, aggiungendo che la Fuerza Armada Nacional Bolivariana (Fanb), l'istituzione militare al servizio della Difesa, “resta ferma nella difesa della Costituzione”.
Mentre dagli USA arrivano le dichiarazioni del senatore repubblicano Marco Rubio, a sostegno del colpo di stato, il Presidente della Bolivia Evo Morales condanna “vigorosamente il tentativo di golpe in Venezuela” e si dice convinto di un suo totale fallimento.

Luca Bagatin

sabato 27 aprile 2019

Sulle sterili contrapposizioni politiche, sulla figura del padre, sulla famiglia, sul matrimonio. Riflessioni brevi di Luca Bagatin

In ambito politico penso che ci sia da sempre molta confusione.
Il problema, spesso e storicamente, sono le sterili divisioni e contrapposizioni.
Non avendo io mai avuto una ideologia di riferimento che non fosse la mia (libertaria in ambito personale, socialista in ambito economico, conservatrice in ambito sentimentale e spirituale), ho sempre fatto fatica a riconoscermi in tali contrapposizioni. Preferendo, quindi, tentare di riunire ciò che è e fu sparso.
Fu così che nacque il mio pensatoio/blog "Amore e Libertà", che, spero a settimane, diventerà anche il mio terzo saggio. 
(Luca Bagatin)

A volte sento qualcuno dire che la figura del padre sarebbe scomparsa.
Mi è capitato di leggerlo anche in un commento di confronto a un mio vecchio video su YouTube, qualche giorno fa.
A me pare che più che altro siano i padri ad essere scomparsi.
Alcuni se ne vanno appena sanno di esserci diventati.
Altri se ne vanno dopo o poco dopo. Altri magari vengono mandati via, per un sacco di ragioni, spesso legittime. Però poi, decenni dopo, smettono di interessarsi comunque dei figli.
Penso che essere padri o genitori sia o debba essere una missione e una vocazione. Io non ci ero tagliato e sono rimasto figlio. Altri non ci erano tagliati, ma lo sono malauguratamente diventati. Salvo poi sottrarsi.
Su questo non si riflette mai.

Se proprio dovesse essere utile una fazione, un partito, un convegno della famiglia, dovrebbe parlare di questo. Riflettere di questo. Anziché propagandare l'ideologia familista, come fosse un feticcio, dovrebbe promuovere la figura del genitore come una missione.
Ben consapevoli che di questa missione, come per ogni missione che si rispetti, potranno farsene carico pochissimi. Perché pochissimi potranno avere, nel mondo materiale, tale vocazione.
È un fatto. 

(Luca Bagatin)

Non credo nell'indissolubilità del matrimonio.
Credo nell'indissolubilità dell amore, che non ha nulla a che vedere con il matrimonio e men che meno con il patrimonio.
(Luca Bagatin)

Unidos Podemos...costruire la Civiltà dell'Amore

Questo blog/pensatoio, ha sempre sostenuto le istanze del partito spagnolo Podemos, i cui ideali si rifanno al Socialismo del XXI Secolo, alla democrazia diretta e partecipativa, all'ambientalismo, al populismo e al patriottismo comunitario.
Oggi Podemos si è allargato ad altre forze e ha cambiato nome, aggiungendo, nel simbolo, un cuore. Simbolo dell'Amore (e della Libertà). Simbolo che tanto ci è caro e che assunse anche Hugo Chavez - indimenticato Presidente socialista del Venezuela - nelle sue numerose uscite pubbliche e che ancora oggi è un importante simbolo del Socialismo del XXI Secolo.
Forse questo non è affatto un caso, anzi.
Ecco perché, ancora una volta, anche a questa tornata elettorale spagnola, vogliamo sostenere gli amici di Unidos Podemos. 
Perché uniti, con la forza dell'Amore e della Libertà, possiamo battere le oligarchie liberal-capitaliste di destra e sinistra. Attuando e attualizzando una possibile economia socialista di non-mercato e una democrazia finalmente autentica, diretta a partecipativa.
E, chissà, un giorno, costruire la Civiltà dell'Amore. Dalle macerie dell'odio e del dolore.

Luca Bagatin


giovedì 25 aprile 2019

Antifascismo socialista e repubblicano: Pietro Nenni, Randolfo Pacciardi, Mario Bergamo

http://amoreeliberta.blogspot.com/2016/04/un-antifascista-della-primissima-ora.html


http://amoreeliberta.blogspot.com/2019/03/mario-bergamo-il-repubblicano_19.html

Argentina. Alla commemorazione del 70esimo anniversario del Primo Congresso Nazionale di Filosofia Dugin ricorda Peron. Articolo di Luca Bagatin

Nei giorni scorsi si è tenuta, in Argentina, a Buenos Aires, la settimana di commemorazione del 70esimo anniversario del Primo Congresso Nazionale di Filosofia, che si tenne per la prima volta a Mendoza, nella primavera del 1949, con la partecipazione dell'allora Presidente Juan Domingo Peron e di sua moglie Evita, oltre che dei ministri del suo governo e dei maggiori esponenti delle Università del Paese. Fu un evento importante, perché per la prima volta fu organizzato un convegno di filosofia a carattere nazionale, fortemente voluto e sostenuto dal governo.
Quest'anno, fra gli ospiti della settimana commemorativa, tenutasi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di di Lomas de Zamora, il filosofo russo Aleksandr Dugin, autore de “La Quarta Teoria Politica”, i cui fondamenti si basano sulla critica dei totalitarismi novecenteschi, sul superamento di ogni scontro di civiltà, sulla critica alla modernità e su un recupero del socialismo originario, privo di ateismo, progressismo e materialismo.
In questo senso Dugin è intervenuto ricordando la grande figura storica e politica di Peron, affermando: “Peron è grande, è il profeta ontologico. Solo Peron ha individuato nella sua visione il problema più importante: quello dell'essere. E solo l'umanità può essere una comunità”. E ha proseguito: “Le idee di Peron sono così universali, così grandi, sono così simili ai sogni dei patrioti russi che posso vedere la mia identità e i miei valori riflessi in essi (…), Juan Peron è l'esempio da seguire per tutti i capi di Stato”. Ricordando come sia stato “l'unico capo di Stato che ha convocato un Congresso di Filosofia” e che “non solo sapeva come ascoltare i filosofi, ma sapeva anche come fare la filosofia”.
Citando uno fra i testi fondamentali scritti da Peron, “La Comunità Organizzata”, i cui concetti furono introdotti dal Presidente stesso proprio alla fine del Congresso di Filosofia del 1949, Dugin ha fatto presente come: “La Comunità Organizzata è la risposta filosofica su ciò che l'Argentina è e dovrebbe essere, un'Argentina che è una comunità, o non è, ed è una comunità in Sud America, perché c'è una identità comune tra i popoli americani che si pensano ancora come comunità” ed ha concluso ricordando come il pensiero socialista di Peron sia stato volto a combattere i liberalismi di destra e sinistra, ovvero la modernità e l'ideologia capitalista.
Al convegno è intervenuto anche il politologo argentino Marcelo Gullo, il quale ha fatto presente come oggi l'oligarchia finanziaria abbia fondamentalmente due braccia: il neoliberismo e il progressismo e che per contrastarla sia necessario un ritorno al pensiero di Peron.
Pensiero di Peron che, ricordiamo, fu fortemente constrastato dalle dittature militari negli Anni '60 e da quelle successive con a capo Videla; fu infangato da finti peronisti come Menem – in realtà neo-liberali - e fu recuperato solamente negli ultimi decenni da Nestor e Cristina Kirchner, che hanno alleviato le sofferenze del Paese.
Non dimentichiamo che oggi l'Argentina, governata dal liberale Mauricio Macri, è tornata indietro di decenni in ambito sociale, civile ed economico e che purtroppo il fronte peronista che gli si contrappone è ancora oggi drammaticamente diviso. Fronte peronista che – per le elezioni presidenziali dell'ottobre prossimo - dovrà fare quadrato e decidere il suo candidato fra i nomi di Daniel Scioli e Cristina Kirchner: il primo sconfitto da Macri per una manciata di voti e la seconda, ex Presidentessa che ha governato il Paese risollevandolo da povertà e analfabetismo.
Se dovessero presentarsi questa volta con liste divise, il rischio di una nuova vittoria del fronte liberal-capitalista potrebbe essere davvero molto forte. E per l'Argentina sarebbero ancora tempi oscuri.

Luca Bagatin

martedì 23 aprile 2019

"Bandiera rossa": canzone repubblicana, mazziniana, garibaldina, oggi anche socialista e comunista

In pochi sanno o ricordano che l'inno "Bandiera rossa" ha origini repubblicane, mazziniane e garibaldine.
La canzone sembra essere romagnola e, originariamente, il suo titolo era "Bangera rossa", scritto da un Anonimo del 1900. I personaggi citati nella canzone originaria erano Giovan Battista Pirolini e Roberto Mirabelli, esponenti e deputati del Partito Repubblicano Italiano di Ravenna, quando ancora quello storico partito predicava la cooperazione operaia, l'autogestione e l'unione del capitale e del lavoro nelle stesse mani, ovvero si opponeva al capitalismo e al liberalismo e i suoi ideali erano, assieme a quelli socialisti e anarchici, una delle colonne portanti della Prima Internazionale dei Lavoratori del 1864.

Questo il testo originario, con tanto di breve storia, che è reperibile al seguente link: http://www.ritosimbolico.it/studi2/canti/10.html

Sta forte o Pirulini
e non ti avelire
che prima di morire
repubblica farem.
Allegro popolo
a la riscossa
bangera rossa
trionferà.
Bangera rossa la s’indosserà
evviva la repubblica e la libertà.
Giovan sono
e pensier non ho
se passa Garibaldi
a voi andè cun lò.
Allegro popolo noi siam fratelli
con Mirabelli vogliam marciar.
Con Mirabelli
noi vogliam marciar
evviva la repubblica e la libertà
 
Negli anni successivi "Bandiera rossa" diventerà, con diverse modifiche, una celebre canzone socialista e comunista.
Da ex iscritto al PRI oggi, riconosco per molti versi nei comunisti del Partito Comunista quella continuità ideale, risorgimentale e socialista.
Per cui dico volentieri: bentornata bandiera rossa !
Evviva la Repubblica, il Socialismo, l'Amore e la Libertà ! 




venerdì 19 aprile 2019

Ecuador. Nuove persecuzioni politico-giudiziarie contro esponenti socialisti. E' la volta dell'ex Ministro Patino. Articolo di Luca Bagatin

L'Ecuador sta tornando indietro di decenni. Sta tornando ai tempi nei quali era suddito degli USA e preda delle oligarchie economiche e di politici corrotti.
L'attuale Presidente dell'Ecuador, Lenin Moreno, una volta eletto nel maggio 2017 con i voti socialisti quale successore dell'ex Presidente Rafael Correa (di cui fu Vicepresidente), ha tradito da tempo i suoi elettori e il suo mandato. Ha via via distrutto ogni conquista sociale, civile e civica della “Revolucion Ciudadana” (Rivoluzione Cittadina) e fatto arrestare – pochi mesi dopo la sua elezione - prima il suo Vice, Jorge Glas, con un'accusa di corruzione ancora tutta da provare (e che è ancora in carcere, in precarie condizioni di salute) e oggi vuole far arrestare l'ex Ministro degli Esteri di Correa, Ricardo Patiño, colui il quale rinegoziò il debito pubblico con l'estero; diede priorità allo sviluppo umano; fece espellere l'Ambasciatrice USA e diede asilo politico all'attivista libertario Julian Assange nell'Ambasciata dell'Ecuador di Londra.
Quel Julian Assange la cui protezione è stata tolta proprio da Lenin Moreno di recente. Forse perché, come riportato dal “The Guardian”, WikiLeaks potrebbe essere sospettato di collegamento con un sito web anonimo che ha accusato il fratello di Moreno di aver aperto delle società offshore. La medesima accusa che peraltro ha mosso, su Twitter, anche l'ex Presidente Rafael Correa a Moreno stesso.
Ad ogni modo, oggi è il turno di Ricardo Patiño. Accusato di istigazione alla protesta contro il governo, unicamente in quanto ha invitato, durante una riunione del partito “Revolucion Ciudadana” - il nuovo partito socialista dei sostenitori dell'ex Presidente Correa - a protestare contro Lenin Moreno.
Patiño, durante una intervista rilasciata a teleSur, ha parlato di “chiarissima persecuzione politica” e ha sostenuto che “le autorità vogliano liquidare il correismo”, utilizzando la giustizia a questo scopo. Questo ricorda peraltro molto il periodo della tangentopoli italiana e l'accanimento contro il socialista Bettino Craxi, ma anche le accuse di corruzione mosse ai socialisti Lula e a Dilma Roussef in Brasile e alla peronista Cristina Kirchner. Ovvero a tutti coloro i quali non si erano allineati al verbo liberal capitalista a guida USA e hanno attuato politiche in favore delle classi più povere e indigenti.
Nell'intervista, Patiño ha proseguito affermando: “Quando governavamo abbiamo colpito gli interessi dei più ricchi, abbiamo distribuito la ricchezza in forma adeguata e questo non lo hanno sopportato. Si vendicano aggredendoci. Lo Stato agisce in funzione della vendetta e non della giustizia”.
Su Patiño pende inoltre un'altra accusa, che sembra ormai “di moda”, ovvero quella di essere in combutta con fantomatici “hacker russi e svedesi” attraverso i quali avrebbe tentato, nientemeno, di destabilizzare il governo di Lenin Moreno (sic !).
Patiño ha ricordato che la sua lotta è “per le strade” e non certo attraverso fantomatici hacker.
Il giudice Flavio Palomo ha emesso un ordine di detenzione preventiva contro l'ex Ministro degli Esteri Patiño per il presunto reato di istigazione alla protesta.
Patiño si è a sua volta rifugiato in Perù al fine di sfuggire alla persecuzione politica, operata da un governo che ha tradito completamente ogni ideale socialista.

Luca Bagatin

mercoledì 17 aprile 2019

Brevi riflessioni su Radio Radicale, il socialismo, la sinistra e il web. A cura di Luca Bagatin

Su Radio Radicale sembra sceso un pregiudizio politico. In parte comprensibile.
Senza più la forza di Marco Pannella, con una lista "radical boniniana" percepita e non a torto come la rappresentante dell'establishment e con un partito radicale transnazionale sempre meno significativo, era difficile aspettarsi diversamente.
A me spiace, perché Radio Radicale è stata spesso una voce libera. Però mi sembra un po' la metafora del radicalismo italiano: da avanguardia libertaria contro il sistema a gruppo liberal capitalista assoluto.
Chi vuole confrontarsi con il "mercato", anziché combatterlo, non può che aspettersi che questo. Ovvero che il "mercato", appunto, soffochi ogni voce libera.

La differenza abissale fra il socialismo e la sinistra sarà evidente anche alle elezioni europee di quest'anno.
Socialista sarà ad esempio la lista del Partito Comunista, alternativa al capitalismo, all'ideologia del mercato e della crescita economica "illimitata".
La sinistra presenta diverse liste, più o meno "liberal", tutte con un progetto interno al sistema del capitale e della sua riproduzione sistematica, in una spirale viziosa senza fine. Una spirale infinita di nuove povertà e nuove diseguaglianze.

Sono sul web dal 2002. Stabilmente dal 2004. Come blogger e autore.
Ho notato che il web sta diventando sempre più come la TV. Non un "luogo", per quanto virtuale, nel quale scambiarsi idee, opinioni, approfondimenti, ma un contenitore per fare soldi attraverso la pubblicità. Ovvero un "luogo" dove diffondere merda e banalità, funzionali al consumo facile. Come il mercato, che è la merda del mondo sedicentemente civilizzato.
Andando avanti, temo sarà anche peggio.
Il che mi ha non poco deluso.

lunedì 15 aprile 2019

Kazakistan e Cina: alternative multipolari. Intervista di Luca Bagatin al direttore di "Scenari Internazionali" Andrea Fais

E' sempre di più l'Eurasia e il Sud-est asiatico l'alternativa ad un mondo unipolare, a guida Statunitense e capitalista.
Lo vediamo con la Repubblica Popolare Cinese, la quale è ormai la prima potenza del pianeta e ciò grazie ad un socialismo “con caratteristiche cinesi”, un'economia centralizzata, ma allo stesso tempo aperta allo scambio ed una politica estera volta a rapporti pacifici e duraturi con tutti i partner mondiali.
E lo vediamo con il Kazakistan che, anche dopo il colpo di stato in Unione Sovietica ed il conseguente smantellamento del comunismo ad Est, è riuscito a ritagliarsi un ruolo fondamentale quale Repubblica indipendente, eurasiatica e multipolare.
E ciò grazie al suo ultimo Presidente, Nursultan Nazarbayev, ex operaio siderurgico che che è stato anche l'ultimo dei Segretari del Partito Comunista Kazako nel 1991 e colui il quale ha preso in mano le redini del Paese, con il suo partito Nur Otan, sino ad oggi.
Il Kazakistan, posto al confine fra Russia e Cina, rappresenta un importante trait-d'union fra le due realtà.
Grazie al suo progetto di Unione Economica Eurasiatica e di pianificazione economica che rende questo Paese simile alla Cina socialista ma aperta al mercato, Nazarbayev ha messo al centro del suo progetto l'essere umano e la sua emancipazione ed è riuscito ad aumentare la retribuzione media di ben cinque volte rispetto agli Anni '90 e ad accrescere di tre volte le pensioni. L'aspettativa di vita in Kazakistan è notevolmente cresciuta e così il PIL, che è uno dei più alti al mondo, anche grazie agli investimenti nella costruzione di scuole e strutture sanitarie pubbliche e abitazioni.
Da poche settimane il Presidente Nazarbayev, giunto all'età di quasi 80 anni, nonostante il grande consenso popolare, che lo ha portato più volte ad essere rieletto con oltre il 90% dei consensi, si dimesso. Il motivo è che il suo governo non è riuscito ad eradicare completamente la povertà e a diversificare l'economia, oggi fortemente dipendente dal settore degli idrocarburi.
Di Kazakistan e Sud-est asiatico parliamo con Andrea Fais, giornalista, saggista, e direttore della rivista “Scenari Internazionali”, nonché co-autore dei saggi “Il Risveglio del Drago. Politica e strategie della rinascita cinese” e “La Grande Muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare”, e autore de “L'Aquila della Steppa. Volti e prospettive del Kazakistan”, che si avvale della prefazione del filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin, relativo alla situazione socio-economica del Kazakistan odierno.

Iniziamo dalla fine, ovvero dalle motivazioni che hanno portato l'ormai ex Presidente kazako Nursultan Nazarbayev a dimettersi e a trasferire, ad interim, i suoi poteri all'attuale Presidente del Senato Kassym-Zhomart Tokayev. Cosa puoi dirci in merito ? Quali saranno i successivi sviluppi ? C'è chi parla, quale successore, alle prossime elezioni, della figlia di Nazarbayev, Dariga. E' così ?
Non saprei rispondere a quest'ultima domanda. Credo che sia prematuro parlarne, almeno fino a quando non saranno presentate ufficialmente le candidature. Ad ogni modo, la leadership di Nazarbayev era evidentemente giunta a compimento, esaurendo il tempo naturale a sua disposizione. L'età e le non perfette condizioni di salute avevano già messo in dubbio la sua presenza alle ultime elezioni presidenziali di quattro anni fa. Eppure, l'elevatissimo consenso ottenuto aveva evidentemente convinto Nazarbayev a restare in sella ancora per qualche tempo.
Oggi, come giustamente ha fatto notare lo stesso ex Presidente nel suo messaggio al Paese, c'era invece bisogno di un passo indietro per dare spazio ad una nuova generazione che dovrà guidare il Paese da qui al 2030, sulla scia della strategia nazionale lanciata nel 1997, preparando le basi per gli obiettivi al 2050, seguendo l'impronta della strategia nazionale lanciata nel 2012. Certo, non sarà facile trovare una figura altrettanto capace e carismatica. L'eredità politica dei ventotto anni di Nazarbayev alla presidenza della Repubblica è sostanziosa: ci sono tantissimi programmi da implementare, completare e mettere a regime, a partire da Nurly Zhol, il piano di stimolo economico lanciato alla fine del 2014 per modernizzare le infrastrutture a tutti i livelli e per imprimere dinamismo alla piccola e media impresa, e dai Cento Passi Specifici per Implementare le Cinque Riforme Istituzionali, che dovranno ridefinire l'architettura complessiva del Paese rendendo lo Stato più snello, coeso, efficace, digitale e business-friendly.

Il Kazakistan è un esempio virtuoso di come una ex Repubblica Sovietica, pur dopo lo smantellamento del comunismo in URSS, è riuscita non solo ad emanciparsi, ma anche ad elevare il tenore di vita dei suoi stessi cittadini e ciò grazie al forte intervento statale e ad un progetto che ha messo al centro non già l'economia, ma il benessere della popolazione. Cosa puoi dirci, relativamente a tale aspetto ?
A differenza di quanto avvenuto in Russia, negli anni Novanta, la stabilità e il ruolo-guida dello Stato hanno permesso al Paese di sviluppare, in un clima di relativa tranquillità, una nuova repubblica indipendente, simboleggiata dalla posa, nel 1997, della prima pietra della moderna e futuristica capitale, Astana, recentemente ribattezzata Nur-Sultan, in onore del Presidente uscente.
Quella kazaka è un'economia di mercato in costruzione ed il vecchio modello, fondato principalmente sull'industria estrattiva, non è ancora stato superato, con gli idrocarburi ancora troppo incisivi sull'export del Paese. Stando agli ultimi rapporti dello scorso anno, il Kazakhstan è 28° nella classifica Doing Business della Banca Mondiale. Tre anni e mezzo fa era al 41° posto. Per quanto riguarda l'Indice di Competitività Globale, redatto dal Forum Economico Mondiale, è invece al 59° posto, perdendo terreno rispetto a tre anni fa. Insomma, le riforme vanno avanti ma necessitano ancora di diversi anni di lavoro che il nuovo presidente sarà chiamato a svolgere.
Tuttavia sono stati compiuti passi in avanti notevoli. In generale, c'è oggi in Kazakistan maggior spazio per l'industria leggera, orientata anche e soprattutto ai consumi interni, in particolare per quanto riguarda i settori alimentare, tessile, elettronico e farmaceutico. Più risalto è stato dato anche al settore delle energie rinnovabili, che ha ispirato l'Expo di Astana due anni fa. Al tempo stesso, una maggiore attenzione ai bisogni del cittadino ha messo al centro dell'azione di governo un'idea di welfare più concreta di cui, tuttavia, vedremo gli effetti più importanti nei prossimi anni.

Il Kazakistan si trova posto fra la Russia, con la quale condivide un ottimo rapporto socio-economico - anche all'interno dell'Unione Economica Eurasiatica - e la Cina.
La Cina è sempre più, ormai da tempo, forse la prima potenza mondiale e lo stiamo vedendo anche grazie agli investimenti cinesi in Europa, oltre che da tempo in America Latina ed Africa, pur senza voler imporre il suo modello e senza voler colonizzare quei territori.
In merito hai collaborato alla stesura di ben due saggi. Qual è la tua opinione in merito ?
Se parliamo in termini di PIL nominale, la Cina è ancora seconda dietro gli Stati Uniti. Se prendiamo a riferimento il PIL a parità di potere d'acquisto, già da tempo la Cina è la prima economia mondiale. I due saggi citati risalgono a 7-8 anni fa, c'era ancora Hu Jintao alla guida del Paese. Permane, di fondo, l'idea generale secondo cui il mercato debba svolgere un ruolo sempre più decisivo nel processo di allocazione delle risorse ma con Xi Jinping la situazione è notevolmente cambiata. La nuova contraddizione principale individuata dalla leadership è quella fra uno sviluppo sbilanciato e le aspirazioni della popolazione ad una migliore qualità della vita. Il paradigma economico cinese è ora incentrato su un modello di crescita sostenibile, fondato sulla qualità manifatturiera, piuttosto che sulla quantità, dove sarà sempre più decisivo il ruolo delle start-up e degli innovatori in generale, secondo un'idea di imprenditorialità di massa.
La riforma strutturale dell'offerta adottata da Pechino ha semplificato la macchina amministrativa e ha ridotto gli oneri fiscali e burocratici per milioni di micro, piccole e medie imprese, specie in settori come l'hi-tech, la salute e l'ambiente. Con la nuova legge sugli investimenti approvata dall'ultima Assemblea Nazionale del Popolo a marzo, che entrerà in vigore il primo gennaio 2020, il Paese ha inoltre aperto in modo più forte il mercato cinese al resto del mondo fornendo nuove e più efficaci garanzie sia sulla parità di trattamento che sui diritti di proprietà intellettuale.
La Cina è indubbiamente la realtà contemporanea più dinamica ed è normale che questo suo dinamismo coinvolga tanti Paesi nel mondo, a partire da quelli che, partendo da condizioni di indigenza e sottosviluppo analoghe a quelle della Cina di quaranta o cinquant'anni fa, vogliono ripercorrerne le orme. L'importante è capire che non esiste più un modello politico ed ideologico universale, ma che ogni realtà seguirà una propria strada e le classi dirigenti di tutto il mondo saranno giudicate dai rispettivi corpi sociali sulla base dell'efficacia nel fornire ai cittadini e alle imprese risposte rapide, servizi di qualità, ecosistemi funzionali e città vivibili. Ha ragione Parag Khanna nel suo La rinascita delle città-stato, quando cita la Svizzera e Singapore come due modelli con precise caratteristiche di riferimento per poter definire l'assetto politico nell'era della post-democrazia, un assetto che lui chiama "tecnocrazia diretta", ma che in realtà è una sorta di democrazia risolutiva partecipata.

L'Eurasiatismo è una corrente di pensiero elaborata da Konstantin Leont'ev nell'800, la quale è volta a recuperare la spiritualità del cristianesimo ortodosso contrapposta al razionalismo e al materialismo occidentale. Resa attuale dal filosofo Aleksandr Dugin e da lui coniugata alla geopolitica, l'Eurasiatismo, oggi, si propone di unificare i Paesi postsovietici a quelli europei, in chiave anti-statunitense e anti-atlantica, al fine di costituire un nuovo ordine globale fondato sul multipolarismo e la cooperazione pacifica internazionale.
Pensi che tale visione possa essere condivisibile ? E, se sì, perché ?
In origine, l'eurasiatismo era semplicemente un tentativo di fornire un'identità culturale e spirituale comune al vastissimo territorio dell'Impero russo, ritenuto un plesso non appartenente né all'Europa né all'Asia, definito appunto col nome di "Eurasia", un luogo a cavallo - per così dire - fra i due continenti, dove convivevano decine di popoli, lingue ed etnie riconducibili principali a tre ceppi: indoeuropeo, uralo-altaico e paleosiberiano. A queste si aggiungevano nell'area caucasica realtà etno-linguistiche autoctone, come il georgiano o l'abcaso. Anche secondo il punto di vista scientifico di Lev Gumilëv, l'etnogenesi eurasiatica altro non era che la formazione storico-geografica di questo grande spazio compreso fra Europa ed Asia, tuttavia né pienamente europeo né pienamente asiatico.
Il neo-eurasiatismo è qualcosa di diverso, è un vero e proprio progetto politico-ideologico rispetto al quale personalmente ho sempre nutrito dubbi. Non soltanto perché certe distanze culturali e religiose sono incolmabili (basti solo pensare allo scontro russo-ucraino o alle tensioni russo-polacche tanto per restare fra popoli slavi, senza nemmeno tirare in ballo quelli musulmani), ma perché credo nessuno senta il bisogno di tornare alla geopolitica dei blocchi contrapposti, anzi: la logica dello scontro di civiltà è qualcosa contro cui, personalmente, mi sono sempre battuto. Condivido l'idea che il concetto stesso di "fine della storia", espresso da Francis Fukuyama alla fine degli anni Ottanta, altro non sia che un feticcio ideologico del secolo scorso, ma ormai è semplicemente contraddetto dai fatti, non c'è bisogno di affrontarlo di petto.
Va poi ricordato che Dugin espone questa teoria fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, in piena epoca "unipolare", come l'ha spesso descritta, quando cioè gli Stati Uniti erano la sola superpotenza superstite della Guerra Fredda e potevano disporre di un raggio d'azione globale praticamente illimitato a livello strategico, che non di rado ha visto Washington scavalcare persino l'ONU stessa. Il quadro di oggi è molto diverso, è sempre più caratterizzato dalla costruzione di un ordine multipolare, dove non solo le potenze del BRICS, ma anche altri attori stanno emergendo. Già si parla da anni di MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia). Decisiva è in particolare la capacità delle potenze emergenti di coinvolgere altri Paesi, di diventare un magnete economico, finanziario, sociale e culturale: anche qui la Cina è in pole position.
Altro discorso è invece quello relativo all'integrazione regionale, alla cooperazione politica ed economica o alla reciproca comprensione e conoscenza, anche a scopo di promozione turistica dei territori. Questo, in Asia, vale non solo per i Paesi ex sovietici, ma anche per il Medio Oriente, la regione Asia-Pacifico e per il Subcontinente indiano. In questo senso, Europa ed Asia dovranno indubbiamente rafforzare le piattaforme di dialogo già in essere da anni, come l'ASEM, e crearne di nuove su temi specifici. L'iniziativa cinese Belt and Road, cui l'Italia ha aderito il mese scorso, è un passo in avanti enorme in questa direzione.

Luca Bagatin

sabato 13 aprile 2019

La vita di Mu'Ammar Gheddafi raccontata nel romanzo di Andrea Sammartano. Articolo e intervista di Luca Bagatin

Questa è la storia dell'umile beduino della tribù dei Quadhadhfa, figlio di umili beduini del deserto libico. Suo padre combatté contro l'invasore fascista - durante la Seconda Guerra Mondiale - e lui stesso, all'età di sei anni, a causa dell'esplosione di una mina risalente al periodo bellico, rimase ferito a un braccio e due suoi cugini persero la vita.
E' la storia di come questo umile beduino del deserto, animato di ideali rivoluzionari, laici, socialisti autentici che ebbe modo di scoprire attraverso i suoi studi, divenne l'emancipatore e il leader – dal 1969 sino alla sua barbara uccisione, nel 2011 – della Libia.
E' la storia di Mu'Ammar Gheddafi, il Rais che – con un colpo di stato antimonarchico, senza alcuno spargimento di sangue, guidato da lui e altri 12 militari di umili origini – il 1 settembre 1969, proclamerà la Gran Jamahirya Araba Libica Popolare Socialista, spazzando via il Re corrotto e la sua corte, servile nei confronti di Gran Bretagna e USA; nazionalizzando le risorse del Paese a beneficio della comunità e dando il via a una repubblica delle masse, ovvero a una forma di democrazia diretta, sulla base degli insegnamenti di Rousseau e di Proudhon.
Gheddafi era ispirato dalla rivoluzione sociale e socialista dell'egiziano Nasser e, come Nasser, il suo ideale era quello di unificare i popoli arabi in una grande repubblica laica, socialista, sovrana, antifondamentalista e antimperialista. Non allineata né all'imperialismo USA né all'Unione Sovietica e con un sistema socio-politico alternativo sia al capitalismo che al comunismo, come peraltro già avvenuto decenni prima nell'Argentina di Juan Domingo Peron.
Quella di Gheddafi è la storia di un umile beduino diventato leader e simbolo di lotta socialista, laica e panafricana. Un umile beduino che – come ebbe egli stesso a scrivere nella sua raccolta di racconti “Fuga dall'inferno e altre storie” - amava le campagne e detestava le città; amava l'ambiente e la ricchezza della terra e rifuggiva l'urbanizzazione; amava le masse, ma detestava la tirannia della maggioranza; amava la sua religione, ma rifuggiva dalle superstizioni e dal fondamentalismo che generava guerre e divisioni.
Sulla base di tali suoi ideali utipici, ma allo stesso tempo concreti, nel 1975, redasse persino un “Libro Verde”, nel quale li mise nero su bianco, sviluppando quella che chiamerà Terza Teoria Universale (vedi http://amoreeliberta.blogspot.com/2015/09/il-libro-verde-di-muammar-gheddafi.html).
La storia di questo umile beduino è raccontata dallo scrittore Andrea Amedeo Sammartano, egli stesso nato a Tripoli, in Libia, nel 1950. Andrea Sammartano lo fa nella forma del “racconto autobiografico”, laddove a ripercorrere la sua autobiografia è lo stesso Gheddafi, attraverso le parole di Sammartano, il quale immagina il Rais libico – costretto a rifugiarsi nel condotto idrico per sfuggire ai bombardamenti della NATO, nel 2011 – mentre riesamina la sua vita.
“Chiudo gli occhi due secondi, miei poveri detrattori. Ecco a voi il mio cammino inviolato”, edito da Italic (www.italicpequod.it), è il racconto della vita di Gheddafi. Dall'infanzia sino alla maturità e all'atroce morte, nelle mani dei suoi nemici, con il concorso di USA (guidati dal tanto ingiustamente osannato Obama), Francia, Gran Bretagna e NATO intera, che non hanno avuto pietà per l'unico simbolo dell'argine contro il fondamentalismo islamico e unico simbolo moderno dell'unità dei popoli africani liberi e sovrani, uniti nella bandiera della laicità e del socialismo.
Il romanzo/racconto di Sammartano, scritto con uno stile letterario piuttosto aulico e forbito, è uno scritto che ricostruisce – con dati storici alla mano – la vita di un uomo considerato, spesso a torto, controverso e, forse non a caso, rivalutato da molti post-mortem. Un po' come accaduto, peraltro, ad uno dei suoi contemporanei e con il quale ebbe rapporti di amicizia, ovvero al già Presidente del Consiglio italiano, il socialista Bettino Craxi. Altro amico dei popoli e dei Paesi liberi e sovrani, la cui triste fine politica non coincise affatto con la fine del suo pensiero e del suo ricordo, nella mente di coloro i quali lo hanno sostenuto e hanno compreso la lungimiranza della sua azione. Lungimiranza e visione oggi del tutto assente nella prospettiva dei politici odierni, sia italiani che europei.
Questo di Andrea Amedeo Sammartano è il suo secondo romanzo. Nel 2012, pubblicò infatti “Festa grande alla Dahara”, che ha suscitato l'interesse della Stony Brook University e della Hofstra University di New York.
Romanzo ove l'autore si racconta in terza persona, figlio di colonialisti italiani in Libia, il quale cerca in tutti i modi di integrarsi fra i libici. Anche quando sarà costretto a lasciare la Libia, con l'avvento al governo di Gheddafi, nessuna amarezza o risentimento lo toccherà. Rimane infatti in lui l'amore per quella terra e la comprensione che ogni popolo nasce libero e non può mai essere colonizzato e soggiogato da nessun altro popolo.
Andrea Sammartano
Ho avuto la possibilità di intervistare Andrea Sammartano, relativamente alle sue opere.

Luca Bagatin: I due romanzi che hai scritto sono ambientati in Libia, tua terra natia. Cosa ricordi della tua infanzia in quella terra ?
Andrea Sammartano: Alla luce della mia esperienza di vita in Italia, Paese nel quale risiedo dal 1970, potrei affermare di non avere ricordi della vita trascorsa in Libia e tento di spiegare perché.. La mia nascita e poi la mia residenza in Libia durata diciannove anni, hanno determinato all'interno del mio sentire un cambio di identità totale. Da italiano in quanto figlio di italiani e di conseguenza della loro cultura, mi sono trasformato nel corso degli anni in un libico. Cosa ha causato questo totale cambio di identità ? In primo luogo aver saputo molto precocemente la verità nascosta per molto tempo sulla crudeltà della colonizzazione italiana in Libia. Questa ha provocato la forte necessità di una richiesta di perdono, prima nei confronti di tutti i libici con i quali avevo a che fare ogni giorno, e poi nei confronti di tutto il popolo libico. L'unico modo che ho ritenuto fosse valido per raggiungere lo scopo, è stata la mia completa integrazione negli usi, nei costumi e, aspetto più importante, nel loro modo di sentire. In definitiva sposare la loro cultura. Scusa questa lunga premessa alla domanda, ma forse attraverso questa, riuscirò a farti comprendere come mi sono cimentato a vivere qui in Italia come se fossi stato sempre in Libia, quindi evitando, non sempre riuscendoci, i ricordi che oltre a provocare nostalgia non rappresentano la realtà.

Luca Bagatin: Gheddafi, una volta diventato leader della Libia e avendola liberata da ogni colonialismo, esproprierà gli italiani – giunti in Libia per volere del Duce - dei propri beni e delle proprie attività economiche. Tu stesso, come racconti anche nel primo romanzo, sei figlio di colonialisti italiani. Come hai vissuto l'abbandono di quella terra ? Cosa ne pensi di quella decisione presa da Gheddafi, oltre che colonialismo italiano in Libia ?
Andrea Sammartano: La decisione di Gheddafi di espellere i cittadini italiani in Libia nel 1970 è derivata da numerose circostanze. Ne citerò per brevità solo tre. La prima riguarda la crudeltà dimostrata durante la colonizzazione dall'esercito italiano. La seconda il comportamento di indisponibilità del governo italiano nel momento in cui Gheddafi ha chiesto il riconoscimento del nuovo Stato libico e l'indennizzo dei danni provocati dall'invasione coloniale. La terza concerne la supponenza culturale della maggior parte dei residenti italiani in Libia nei confronti dei libici. Credo di rispondere a tutte le tue domande aggiungendo che ho ritenuto legittime le considerazioni che hanno portato Gheddafi a espellere la comunità italiana.

Luca Bagatin: Hai deciso di scrivere un romanzo su Gheddafi, attraverso un ipotetico racconto autobiografico scritto da Gheddafi stesso. Come mai questa scelta ?
Andrea Sammartano: Sono partito dalla condizione più oggettiva possibile. Ho scritto sulla vita e sul pensiero di Muammar al Gheddafi sulla scorta di un lungo studio del suo operato e, grazie a fortunate e numerosissime interviste effettuate presso l'Università di Perugia dove risiede la più consistente comunità libica in Italia. Con un pizzico di presunzione ritengo il contenuto del libro non così ipotetico.

Luca Bagatin: Chi era, secondo te, Mu'Ammar Gheddafi ? Quale la sua eredità politica ?
Andrea Sammartano: Uno dei rivoluzionari più coerenti dei nostri giorni. Riguardo alla sua eredità politica, la Libia ha rappresentato uno Stato unito, sovrano e rispettato in tutto il mondo solamente sotto il suo regime. Aggiungo il tentativo di proporre una democrazia diretta. La realizzazione di una emancipazione scolastica dopo un esagerato analfabetismo. L'emancipazione femminile. Il basso costo della vita ma, sopra tutto, il contrasto spietato al consumismo dilagante nei paesi arabi e la difesa dei valori culturali e religiosi della Libia. Il suo evidente panafricanismo. Aspetti che lo ha portato alla sua condanna a morte.

Luca Bagatin: La Libia, dal 2011, è nel caos. Oggi ancor più di prima. Cosa ne pensi dell'attuale situazione ?
Andrea Sammartano: La Libia è dilaniata nel suo tessuto interno dal sopravvento delle realtà libiche legate a interessi stranieri come ai tempi della Monarchia defenestrata da Gheddafi.

Luca Bagatin: Stai lavorando a un nuovo romanzo o pensi comunque di scriverne un terzo ?
Andrea Sammartano: Sto lavorando con uno storico libico alla stesura di un saggio storico sulla Libia.

Luca Bagatin

Elezioni Europee. Il Partito Comunista pronto a contrapporsi a europeismo e liberal-capitalismo. Articolo di Luca Bagatin

Chiedersi se questa Unione Europea abbia migliorato la vita dei cittadini, il loro tenore di vita, il loro senso di partecipazione attiva e democratica è finanche superfluo. La risposta è no.
Ai bisogni delle persone si è sostituita l'economia. L'ideologia di una “crescita” che non è e non può essere illimitata, in quanto le risorse sono limitate e non ci si rende ancora conto che più si consuma e più si distrugge l'ambiente e si costringono le persone a lavorare di più, a fronte di salari sempre più ridotti, in quanto c'è sempre chi vuole profitti maggiori e, pur di ottenerli, è disposto a delocalizzare la propria azienda.
Un'Europa nella quale i cittadini si sentono sempre più, dunque, succubi di scelte prese altrove e in balìa di fantomatici “mercati”, che nulla hanno a che vedere con il mercato sotto casa e con la piccola distribuzione. In balìa di Commissioni e Parlamenti “europei” lontani dalla propria realtà locale, dal proprio comune sentire, dalle proprie tradizioni. Decisioni alle quali ogni cittadino non può opporsi, non può appellarsi. E' la legge del “mercato”, della “crescita”, è “l'Europa” e la “competitività” che ce lo impongono, ci si sente rispondere.
La democrazia, purtuttavia, è un'altra cosa. E' partecipazione e compartecipazione popolare. Altrimenti si rischia di finire come in Francia, ove un Presidente liberal-europeista è inviso alla maggioranza del suo popolo che – da ben ventidue settimane – manifesta incessantemente chiedendo le sue dimissioni.
Le elezioni europee del 26 maggio, che già di per sé vanno ad eleggere dei parlamentari e non prevedono forme di democrazia diretta, prevedono – almeno in Italia - ancora una volta uno sbarramento al 4%. Non così permettendo a tutti i cittadini di eleggere un proprio rappresentante, ma escludendone moltissimi. Come se non bastasse, se un partito non ha già un suo rappresentante nel Parlamento europeo, tale partito sarà costretto a dover raccogliere le firme...impresa davvero ardua se non impossibile !
In tutto ciò un piccolo partito, quello che ancora si presenta con la storica falce e martello, il Partito Comunista di Marco Rizzo, sembra che avrà la possibilità di presentarsi senza dovere raccogliere le firme. In quanto sarà collegato alle liste del Partito Comunista Greco, il KKE, che ha già un suo rappresentante nel Parlamento di Bruxelles.
Quel KKE che, a differenza della sinistra liberal-capitalista greca di Tsipras e Varoufakis, che ha ridotto il popolo greco in bolletta, si è sempre opposto all'austerità europeista della “crescita” (buona per i ricchi, ma non per i poveri) ed alle politiche del Fondo Monetario Internazionale (il quale ha ammesso di aver sacrificato la Grecia per salvare l'Euro...sic !).
Il PC di Rizzo sembra essere il solo e unico partito socialista che si candiderà alle elezioni europee in Italia e forse uno dei pochissimi partiti socialisti a candidarsi in Europa. E questo in quanto è l'unico a volersi porre in discontinuità con il sistema liberal-capitalista e europeista. Proponendo non solo l'uscita dall'Unione Europea, che impone assurdi vincoli di bilancio, e dalla guerrafondaia Alleanza Atlantica, ma anche proponendo un sistema economico diverso. Socialista, appunto. Alternativo sia alle destre che alle sinistre liberal-capitaliste.
Così scrive – fra le altre cose - una nota del Partito Cominista dei giorni scorsi:
L’Europa dei lavoratori e dei popoli che noi vogliamo realizzare, potrà essere costruita solo al di fuori dell’Unione Europea che è un’alleanza imperialista al cui timone ci sono le grandi società della finanza. L’Unione Europea è il principale promotore delle politiche di attacco ai diritti dei lavoratori e delle classi popolari, protagonista di guerre e responsabile della crisi. Non esiste spazio per la creazione di una società che metta in primo piano i diritti sociali nella gabbia dell’Unione Europea e dell’euro. Non esiste alcun futuro di progresso, di giustizia e di pace per le nuove generazioni in un sistema antidemocratico che mira a schiacciare i diritti e la condizione dei popoli in favore del profitto di pochi. Crediamo sia necessario rafforzare il processo di ricostruzione comunista per dare ai lavoratori e alle classi popolari una reale alternativa alla falsa scelta tra le forze di governo e di opposizione, tra europeisti e nazionalisti, divisi nella propaganda ma sempre uniti nella difesa degli interessi della finanza e nell’approvazione di politiche antipopolari. Un’alternativa che non può essere rappresentata da liste elettorali di sinistra, prigioniere di contraddizioni politiche e prive di qualsiasi prospettiva, funzionali solo alla conservazione di vecchi gruppi dirigenti, che puntualmente si presentano a ogni elezione con nomi e simboli diversi, contribuendo solo a disorientare il proprio popolo”.
Il Partito Comunista, nonostante l'alto sbarramento elettorale, può forse rappresentare una alternativa, anche per chi comunista non è. Per chi non si rassegna a mettere in vendita il presente e il futuro di un'Europa che, come ha detto lo scrittore Eduard Limonov “...persegue il bene con tutti i mezzi del male. L'Europa è in profonda crisi, in crisi di coscienza”.


Luca Bagatin

venerdì 12 aprile 2019

Per preservare l'ambiente occorre cambiare completamente stile di vita e sistema economico. Articolo di Luca Bagatin

Pensare di occuparsi di clima e ambiente attraverso bei discorsi o manifestazioni, come proposto dalla giovanissima Greta Thunberg, può essere lodevole, ma è assai limitante e, soprattutto, risolve ben poco.
Ben poco, in realtà, avrebbe risolto anche il cosiddetto “Green New Deal” proposto dalla deputata newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez, se anche fosse passato al Senato, cosa che ad ogni modo non è accaduta. Tale piano avrebbe previsto l'utilizzo di fonti rinnovabili di energia al 100%, attraverso investimenti nei settori ferroviari “ad alta velocità” (e già l'esistenza di una rete ferroviaria ad alta velocità non è proprio qualcosa di molto “green”) e in nuovi veicoli elettrici.
Tale piano – stimato in circa mille miliardi di dollari - oltre all'ambiente, avrebbe riguardato anche l'assistenza sanitaria universale, un salario minimo di sopravvivenza e una lotta ai monopoli.
Lodevoli iniziative – come il suo puntare il dito contro banche e compagnie petrolifere – ma, permanendo all'interno di un sistema capitalista e consumista – peraltro fortemente condizionato da corporation e multinazionali - che non viene minimamente rimesso in discussione dalla Ocasio-Cortez, rischiano di rimanere più sulla carta che nella pratica.
Le politiche del cosiddetto “sviluppo sostenibile”, tanto amate dalla sinistra liberal-capitalista, in sostanza, non hanno nulla di sostenibile, in quanto tale “sviluppo”, come ricordato dall'economista e filosofo francese Serge Latouche, non è altro che “un'impostura”.
Latouche, filosofo della decrescita, ha più volte ricordato infatti come lo “sviluppo” che noi conosciamo è quello delle tre rivoluzioni industriali, che ha portato ad una contrapposizione fra gli esseri umani e fra gli esseri umani e la natura.
Latouche, a differenza dei promotori dell'ideologia della “crescita economica” e dello “sviluppo”, propone una “decolonizzazione dell'immaginario”, decnomicizzandolo, ovvero proponendo un nuovo stile di vita: vivere del necessario, non del superfluo. E vivere in armonia con la natura.
E' da visioni come questa, arcaiche se vogliamo, che sono sorti – anche online – vari siti di “baratto etico”, ove gli oggetti – anziché essere venduti – vengono scambiati. Generando così un “non-mercato”, evitando così sprechi di oggetti che finirebbero nella spazzatura, rompendo quella spirale consumista che genera unicamente il profitto di pochi, lo sfruttamento di molti e un conseguente inquinamento dell'ecosistema in quanto, per produrre nuovi oggetti, occorrono fabbriche e macchinari non certo “green”.
Aspetti che però le Ocasio-Cortez e le Greta Thunberg non ci raccontano né ci insegnano (a parte qualche lodevole proclama e qualche simpatica manifestazione), in quanto – volenti o nolenti - ancorate ad un modello produttivista, liberal-capitalista, economicista. Un sistema che promette “posti di lavoro” privati (ormai peraltro sempre più rari), che producono reddito e consumo, ma non un lavoro in comune, per il bene delle comunità e quindi dell'umanità nel suo complesso. Ove il prodotto di tale lavoro, anziché generare profitto, possa generare semplicemente lo stretto necessario affinché ciascuno abbia di che vivere. Senza sprechi, senza bisogni indotti, senza il superfluo. Ove ciascuno possa così lavorare meno e godere semplicemente il proprio tempo per stare assieme agli altri, immerso nella natura.
Latouche, in tal senso, recupera il concetto di “economia del dono” (il baratto ne è uno degli aspetti), tipica delle società matriarcali (ancora oggi esistenti, ad esempio in alcune zone della Cina), e di cui parla diffusamente il “Saggio sul dono” dell'antropologo socialista Marcel Mauss.
Tale economia del dono, ricorda Latouche, rafforza peraltro i legami sociali, che il commercio rende invece impersonali e sterili.
Una strada tutta in salita negli USA, che pur hanno rifiutato anche il moderato piano “green” della Ocasio-Cortez.
Modificare il proprio stile di vita e la propria mentalità è una delle cose più difficili che si possano fare e certo sono scelte e percorsi tutt'altro che indolori. La via per un ecosistema preservato, ad ogni modo, dovrà per forza passare attraverso questi aspetti. Non certo per le ricette di una sinistra liberal-capitalista, solo apparentemente differenti rispetto a quelle della destra, ma, nei fatti, ancorate ad un sistema economicista e produttivista che promuove una crescita economica che non è affatto illimitata, così come non sono affatto illimitate le risorse dell'ecosistema nel quale viviamo.
Se abbiano a cuore il nostro ambiente, la natura e i cambiamenti climatici ci spaventano, iniziamo dunque a modificare noi stessi e le nostre abitudini.
I grandi cambiamenti, spesso, non sono operati dai politici, ma dalla gran parte degli esseri umani. Se solamente hanno il coraggio di cambiare, di ragionare e di ricominciare a lavorare in comune per un progetto comune.

Luca Bagatin

martedì 2 aprile 2019

Senza il socialismo è il mercato che governa i popoli. Articolo di Luca Bagatin

Fu Bettino Craxi, il primo, in Europa, a denunciare il fenomeno della globalizzazione. E lo fece con queste parole: “Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare”.
Bettino Craxi, non a caso, usò il termine “imperialismo”. Quell'imperialismo che, qualche anno dopo, bombarderà la Jugoslavia e, successivamente, l'Iraq (con tanto di denunce – da Hammamet – dello stesso Craxi), la Libia e la Siria. Ovvero tutti Stati sovrani, non allineati e laico-socialisti.
Fu lo stesso Craxi a denunciare, da buon socialista, peraltro, il fenomeno padronale dell'emigrazione di massa, che di lì a poco sarebbe esploso – causa del globalismo capitalista - proponendo ad esso un argine. Craxi affermò infatti: “Nel Sud del Mediterraneo le popolazioni sono soggette a un tasso di incremento demografico che è ancora troppo alto. Sono iniziate correnti emigratorie e immigratorie che in assenza di un accelerato processo di sviluppo che abbracci tutta la riva Sud del Mediterraneo sono destinate a gonfiarsi in modo impressionante, e saranno delle tendenze inarrestabili e incontrollabili. Paesi con popolazioni giovanissime, le quali naturalmente vanno verso le luci, le luci della città, se noi non accenderemo un maggior numero di luci in quei Paesi. In realtà le grandi nazioni ricche del mondo non compiono lo sforzo che viene considerato necessario per ridurre queste distanze, le distanze sono assai grandi, sono abissali ed è questa ripeto la grande questione sociale del nostro secolo”.
Craxi fu amico di tutti i socialisti del Terzo Mondo e li sostenne sempre e in ogni modo: dall'America Latina sandinista sino al socialismo arabo.
Craxi, da buon socialista, si immaginava sicuramente un'Europa diversa. Sovrana, anti-globalista, indipendente da ogni imperialismo, un po' come se la immaginarono Charles De Gaulle e Jean Thiriart.
Craxi fu defenestrato da quei poteri forti che non potevano accettare tale visione delle cose e da quella sinistra post-comunista che, rinnegando gli insegnamenti di Togliatti, sarebbe diventata la paladina del liberal capitalismo assoluto. Craxi, invece, fu bollato come un criminale e solo oggi – di fronte a una destra e a una sinistra capitaliste e padronali - la sua figura è da molti rivalutata. Craxi fu, in realtà, l'ultimo dei socialisti europei.
Un po' come Palmiro Togliatti fu, forse, l'ultimo dei comunisti italiani. E vale la pena ricordare ciò che egli disse, a proposito dell'importanza della sovranità nazionale, in un'epoca di messa in vendita di ogni cosa e di ogni identità: “E’ ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. (…) I comunisti non possono staccarsi dalla loro nazione se non vogliono stroncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trust internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio”.
Ecco che Craxi e Togliatti, pur nella loro diversità ideologica, rappresentarono ad ogni modo una sintesi degli ideali della Prima Internazionale dei Lavoratori del 1864, non ancora inquinata dalle dispute fra le sue correnti interne fra marxisti, socialisti, anarchici, mazziniani.
La Prima Internazionale fu, con l'esperienza della Comune di Parigi del 1871 (il cui simbolo fu il garofano rosso) e la Rivoluzione bolscevica del 1917, l'antitesi rispetto alla borghese e liberal-progressista Rivoluzione Francese del 1789, che tagliò la testa ai nobili, senza modificare alcun rapporto di classe, escludendo del tutto il Quarto Stato e instaurando un regime borghese, ove le diseguaglianze non saranno affatto sanate.
E' merito del filosofo francese contemporaneo Jean-Claude Michéa, con il suo “I misteri della sinistra” ed altri successivi saggi, l'aver individuato la differenza abissale fra socialismo originario e sinistra. Il primo è il rappresentante del Quarto Stato, la seconda della borghesia. Il primo è comunitario e preferisce conservare i valori, fra cui quello della propria patria di origine, delle proprie tradizioni popolari, del posto di lavoro fisso e della monogamia; la seconda preferisce disgregarli, in nome del danaro e della “libertà” di produrre all'infinito, di consumare, di godere illimitatamente.
Il socialismo si rifà insegnamenti di Marx, Engels, Bakunin, Proudhon, Mazzini, Garibaldi, Pierre Leroux, i quali – come rileva Michéa - mai si definirono di sinistra, ma sempre si batterono contro l'oligarchia monarchico-aristocratica (la destra) e contro la borghesia capitalista (la sinistra).
Oggi, in Europa, è molto facile notare come il socialismo sia del tutto pressoché scomparso. Pressoché nessun partito maggioritario si rifà a quel tipo di ideali (in parte solo Jean-Luc Mélenchon in Francia e Jeremy Corbyn in Gran Bretagna).
In molti, anche quelli che a parole si dicono “socialisti” e fanno riferimento al cosiddetto Partito “Socialista” Europeo, sono stati i primi, dagli Anni '90 in poi, ad aver abbracciato il capitalismo assoluto: promuovendo leggi di deregolamentazione del lavoro (Loi Travail, Jobs Act); promuovendo le liberalizzazioni; attuando privatizzazioni selvagge; appoggiando guerre di sedicente esportazione della sedicente “democrazia” (Jugoslavia e via discorrendo) e imponendo sanzioni a Paesi sovrani socialisti (vedi oggi il Venezuela).
Costoro, infatti, lungi dall'essere socialisti, appartengono alla sinistra. Borghese, liberal, progressista, ovvero al campo di quello che potrebbe essere definito il “liberal-capitalismo”.
In questo senso non si differenziano affatto da coloro ai quali vorrebbero contrapporsi, ovvero i “liberal-capitalisti” di destra: i vari Bolsonaro, Salvini, Putin o Macron (quest'ultimo una fusione fra liberal-capitalismo di sinistra e di destra). I programmi, in termini economico-sociali, sono infatti i medesimi e a tutto sostegno delle classi medio alte.
Questo, almeno, quanto accade in Europa e negli USA, ove nemmeno Bernie Sanders, che pur presenta un programma in discontinuità rispetto ai “liberal” del Partito Democratico USA, non può essere definito pienamente un socialista, ovvero un oppositore del sistema del capitale, del danaro e del profitto.
Solo in alcune realtà non allineate, come ad esempio la Cuba di Guevara e Castro, la Libia di Gheddafi, l'Egitto di Nasser, la Jugoslavia di Tito, l'Argentina di Peron, il Burina Faso di Sankara, il Sudafrica di Mandela e il Nicaragua sandinista di Ortega, abbiamo assistito all'avvento al potere del socialismo originario, con caratteristiche che univano aspetti autogestionari e di democrazia diretta anche in campo economico. Così come peraltro fu nella libertaria Reggenza del Carnaro di D'Annunzio e De Ambriis negli Anni '20 e nell'Unione Sovietica di Lenin.
Negli ultimo decenni, solo in America Latina, da Hugo Chavez in poi, abbiamo assistito ad una rinascita di tali ideali. Chavez ha saputo recuperare gli ideali emancipatori di Bolivar e quelli di Garibaldi, fondendoli con il socialismo marxista, cristiano, libertario. E tale vento di emancipazione soffiò finanche in Brasile, con Lula, in Argentina, con i Kirchner, il Uruguay con Mujica e in Bolivia con Morales. Dottrine e realtà diverse, ma simili. Che hanno posto al centro l'essere umano e – pur nella diversità dettata dalle diverse realtà economiche, sociali, di cultura e tradizione – hanno saputo riprendere in mano ideali antichi, attualizzandoli, facendo rivivere il meglio del socialismo della Prima Internazionale.
Non diverso è il percorso compiuto dai movimenti panafricani in Africa. Grazie al socialismo arabo di Nasser e Gheddafi, che hanno tenuto a freno il fondamentalismo religioso e nazionalizzato le risorse, a beneficio della collettività; grazie alle lotte di emancipazione di Thomas Sankara; di Nelson Mandela e di molti altri politici e intellettuali di ispirazione socialista o marxista.
Non a caso tutti invisi dai Paesi colonialisti e neocolonialisti d'Europa e Nordamerica e, come tali, combattuti e spesso drammaticamente uccisi. Ma difesi dall'allora Unione Sovietica, sino a che ha resistito all'avvento del globalismo e che ha portato successivamente al potere gli oligarchi.
Da tempo, con Putin, gli oligarchi sono tenuti a freno, ma di certo la Russia moderna è pur sempre nelle mani del liberal-capitalismo, “grazie”, si fa per dire, alle privatizzazioni selvagge e all'innalzamento dell'età pensionabile volute da Putin, ma combattute da quello che – in Eurasia – rimane il più grande Partito Comunista, ovvero il KPFR di Zjuganov. Quello Zjuganov che, tentando di resistere all'avvento dell'oligarchia, ha costituito – negli Anni '90 - un fronte nazionalpatriottico contro Eltsin, recuperando gli ideali nazionalbolscevichi di Niekisch, Mario Bergamo e Thiriart, così come hanno fatto il filosofo Aleksandr Dugin e lo scrittore Eduard Limonov, con il loro Partito NazionalBolscevico, aggregando i giovani sbandanti e post-punk delle periferie post-sovietiche.
Profeti del socialismo originario, in Occidente, furono Pier Paolo Pasolini, Michel Clouscard e Christopher Lasch. I primi due furono militanti comunisti, Lasch fu un intellettuale statunitense, di orientamento socialista conservatore.
Tutti costoro, ad ogni modo, denunciarono nel corso degli Anni '70 – in particolare – l'avvento della società dei consumi. Quella società dei consumi che si sarebbe imposta dagli Anni '90 in poi, che avrebbe imposto la globalizzazione denunciata dallo stesso Craxi. Quella società che ha ormai preso il posto di qualsiasi altro valore della nostra epoca. Che distrugge l'ambiente, che diffonde precarietà (lavorativa, sociale, sentimentale), che distrugge le culture e le identità (imponendo alle persone di emigrare, per trovare spesso un lavoro sottopagato o non pagato).
Quella società sdoganata dalla sinistra, che non è altro che l'altra faccia della destra.
Dove continueremo ad andare a finire, senza più il socialismo ?

Luca Bagatin

lunedì 1 aprile 2019

Intervista dello storico argentino Claudio Chaves al filosofo Alain De Benoist, autore de "Contro il liberalismo". Tratta da "La Prensa"

Alain De Benoist è un filosofo e un pensatore francese del più raffinato livello intellettuale. È nato a Tours nel 1943 ed è autore di centocinque libri e più di tremila articoli. Praticamente nulla che ha a che fare con il pensiero occidentale è stato escluso dalla sua analisi, sempre incisiva e controcorrente. Ha visitato il nostro paese (l’Argentina) quattro volte e durante la sua ultima visita ho condiviso un pranzo con un piccolo gruppo di intellettuali politicamente scorretti. Come per tutti i creativi, è molto difficile incasellarne il loro orientamento ideologico.
Ritenuto erroneamente come il creatore della nuova destra francese, De Benoist sfugge a qualsiasi dogmatismo. Si può dire di lui, come caratteristica centrale del suo pensiero, che è un difensore schietto della diversità culturale oggi travolta da una globalizzazione che profuma di Wall Street e Hollywood.

Può spiegare al lettore argentino qual è la “Metapolítica”?
“La metapolitica non è una disciplina scientifica, ma un metodo. Consiste nel dare priorità al lavoro sulle idee e nel situarsi come osservatore e non come attore nella vita politica”.
L’attuale società francese sta attraversando una crisi politica come evidenziato dalle mobilitazioni dei “gilet gialli”. Oltre ogni luogo comune, quali sono le cause principali del malessere francese? Queste mobilitazioni sono collegate con le rivolte delle banlieue di Parigi nel 2005?
“La causa principale di questa rivolta popolare è l’enorme divario che si è aperto tra la maggioranza dei cittadini francesi e le élite politiche, finanziarie o dei media che operano secondo i propri interessi. Da un lato c’è quella che viene definita “Francia periferica”, e dall’altro ci sono le grandi città globalizzate e incorporate nell’ideologia dominante, che è anche, come sempre, l’ideologia della classe dominante. Questa rivolta non è legata ai malesseri dei quartieri periferici o ad altre dimostrazioni tipiche. Il movimento dei gilet gialli è apparso al di fuori della linea di demarcazione destra-sinistra, al di fuori dei sindacati e dei partiti. Per trovare precedenti, sarebbe opportuno tornare alla rivoluzione del 1848 o a quella della Comune di Parigi del 1871″.
Si parla molto dell’identità nazionale. Esiste, è identificabile? In tal caso, quali sarebbero i valori fondamentali di tale identità in un momento in cui il pensiero unico culturale viene imposto con grande forza e i media hanno uniformato il messaggio ?.
“L’identità nazionale è una realtà indiscutibile, ma complessa. È associata a elementi storici, culturali e religiosi che hanno prodotto una specifica mentalità e socialità, un modo particolare di abitare il mondo. Per definirla, è necessario tenere conto delle persone, allo stesso tempo di “ethnos” e di “demos”. In democrazia, implica anche un confine territoriale, che consente di distinguere tra cittadini e non cittadini”.
Anni fa, nel campo delle scienze politiche e sociali, il concetto di “popolo” o collettività sociale è stato svalutato. L’idea di salvezza per tutti sembra essere sprofondata nella palude di un passato oscuro.
“Margaret Thatcher ha affermato che “la società non esiste”. Dal punto di vista liberale, i popoli, le culture, le comunità non esistono come tali: sono semplici aggregati di individui desiderosi di massimizzare il loro migliore interesse. L’idea dello scopo dell’esistenza (telos) è estranea al liberalismo, così come l’idea del bene comune. Tale concezione è completamente contraria alla realtà: nessuna società può essere ridotta a un confronto di interessi regolati dal contratto legale e dallo scambio commerciale”.
La politica sui diritti umani è oggi una dottrina che abbraccia tutto l’Occidente. E’ da ritenere un pensiero positivo o negativo? Per quali motivi è diventata una idoelogia globale?
“L’ideologia dei diritti dell’uomo è diventata la nuova religione civile del nostro tempo. Si basa sull’idea dei diritti soggettivi: il diritto sarebbe un attributo della persona nella misura in cui è una persona. Nell’antichità, al contrario, il diritto era esterno alle persone: era definito come l’uguaglianza nella relazione. Attualmente, invocando contraddittoriamente “diritti umani” rispetto ad alcuni altri, in continua evoluzione, ha l’effetto di rompere il legame sociale e sminuire la politica in materia di diritto e morale”.
In questo quadro dei diritti umani, l’emergere e la valorizzazione delle minoranze altera l’ordine democratico o lo consolida? E d’altra parte, come si rende coese una società dove i diritti sono più importanti degli obblighi?
“Da un punto di vista liberale, è logico che i diritti precedano i doveri, dal momento che non hanno bisogno della presenza di altri per esistere. Le affermazioni delle minoranze possono essere legittime, ma la dittatura delle minoranze è persino peggiore della dittatura della maggioranza”.
Per alcuni dei suoi scritti si comprende che l’Occidente è in una crisi di transizione: da un lato ci sono i governanti e le élite, dall’altro il popolo che non si fida più di loro. Come si supera questa condizione?
“In effetti, viviamo in un momento di transizione. L’ondata di sfiducia diffusa, frutto di una crisi di rappresentanza, mostra che il tempo delle democrazie liberali parlamentari e rappresentative sta per finire. Queste democrazie liberali sono diventate semplici oligarchie finanziarie. In tutto il mondo, le vecchie feste tradizionali stanno scomparendo. C’è una demarcazione verticale che vede il popolo opporsi alle élite, e sta sostituendo la separazione orizzontale sinistra-destra, che era il vettore del vecchio sistema. La democrazia “illiberale” organica e partecipativa comincia ad affermarsi. Saremo completamente fuori dal vecchio mondo quando questo processo sarà compiuto.
Pensa che il modello politico cinese o altri autoritarismi orientali siano più vicini ai bisogni della gente?
“Non esiste un modello politico universale. Il modello politico cinese è eccellente se si addice ai cinesi, ma ciò non significa che sia adatto agli altri popoli. Al massimo, dovremmo sottolineare che questo sistema indica il percorso di una modernizzazione senza occidentalizzazione”.
Lei è un critico del liberalismo perché attribuisce a questa ideologia, tra le altre cose, la sopravvalutazione dell’individuo sulla comunità sociale o nazionale. Che cosa è successo al liberalismo delle origini che, in particolare in Francia, è stato l’asse su cui è stata fondata la nazione? Luigi XVI fu accusato di alto tradimento, accusa che non è stata avanzata per la rivoluzione che ha introdotto il concetto di Fratellanza?
“Il titolo del mio ultimo libro è “Contro il liberalismo” e risponde alla sua domanda. In esso analizzo estesamente le critiche che possono essere fatti a questa ideologia derivata dalla filosofia dei Lumi. La Rivoluzione francese ha attribuito alla nazione prerogative che precedentemente erano del re, ma è ben lungi dall’essere ispirata solo dagli scrittori liberali come Diderot o di Condorcet. È stata anche influenzata dalla filosofia di Rousseau, che non era liberale, così come dall’esempio dell’antichità romana. Per quanto riguarda la fratellanza, è possibile solo sulla base di un patrimonio comune: ci deve essere un “padre” affinché i fratelli possano esistere. Ma è anche un’idea sbagliata: la storia della fraternità inizia con l’omicidio di Abele da parte del fratello Caino!”.
Nel suo libro “Comunismo e nazismo” si afferma che queste due correnti ideologiche sono un’eredità dell’Illuminismo, come è il liberalismo. Come si colloca questa osservazione nello spazio del pensiero filosofico?
“Su questo tema, il mio punto di vista può essere situato all’interno di una scuola di pensiero rappresentato da autori diversi come Pierre-Joseph Proudhon, Hannah Arendt, Ernst Jünger, George Orwell, Louis Dumont, Ivan Illich, Jean Baudrillard, Christofer Lasch, Jean- Claude Michéa”.
Come è l’Europa oggi e cosa ne pensi della crescita di “Vox” in Andalusia?
“L’Unione europea è attualmente impotente e paralizzata, perché ha scelto di essere un grande mercato anziché un grande potere. L’Europa è, per questo motivo, teatro di un grande cambiamento, dovuto alla spinta dei partiti “populisti”. Non ho informazioni precise sul movimento “Vox”. I suoi recenti risultati sono un sintomo, tra gli altri, del drastico cambiamento che ho appena menzionato”.
Potrebbe spiegare perché, quando la Catalogna ha deciso di separarsi dalla Spagna, per esercitare la libertà della sua autonomia, lei ha sostenuto il separatismo che ha messo la Spagna sull’orlo del baratro come Stato nazionale? Non c’è contraddizione in questa posizione nella sua solita difesa degli Stati nazionali?
“In nessun modo ho sostenuto la decisione della Catalogna di separarsi dalla Spagna! Al contrario, penso che non sia conveniente per quella regione farlo. Ma penso che siano i catalani a dover decidere da soli. Ho sempre difeso la causa dei popoli, il che implica che essi possono, in quanto popoli, essere liberi di autodeterminarsi. Questo vale per catalani, algerini, bretoni, corsi, andalusi… D’altra parte, non sono un difensore incondizionato del modello dello stato nazionale, per non parlare del giacobinismo. L’apparizione di nazioni che ponevano fine all’ordine feudale, coincide con l’emergere della modernità. A questo modello di stato-nazione, preferisco il modello imperiale o federale”.
Conosce il peronismo?
“Che domanda! Naturalmente conosco il peronismo e la dottrina giustizialista. Ho una grande ammirazione per l’ex presidente Perón e un affetto molto particolare per la straordinaria Evita”.
Ha referenze del cancelliere brasiliano nominato da Jair Bolsonaro, Ernesto Araújo? Qual è la sua opinione sulla nomina e l’impensabile trionfo di un candidato impossibile?
“L’elezione e il trionfo di “candidati impossibili” sono un altro sintomo dell’attuale vita politica. A proposito del nuovo ministro degli esteri brasiliano, Ernesto Araújo, per quello che si sa, è un ultra-liberale legato agli interessi dell’agro-business (il fronte che difende i latifondisti), come la sua collega del ministero dell’Agricoltura, Tereza Cristina. L’uomo forte del governo di Bolsonaro, Paulo Guedes, è un ultra-liberale formato nella scuola di Chicago.
Papa Francesco ha un discorso che sembra scontrarsi con la tradizionale visione liberale della storia. È un critico di quello che chiama capitalismo selvaggio che lascia le persone fuori dal sistema e allo stesso tempo dice che il denaro è letame del diavolo. Qual è la sua opinione su questo cambiamento ai vertici della Chiesa?
“Apprezzo il discorso di Papa Francesco quando critica in modo virulento il capitalismo liberale e le ingiustizie sociali. Mi piace meno quando difende il massiccia immigrazione nei paesi europei”.