Luciano Lanna, su "Il Dubbio"
del 31 maggio, pubblica un bellissimo ricordo della Beat Generation
ed in particolare di Jack Kerouac (1922 - 1969), a sessant'anni dalla
pubblicazione del suo romanzo più famoso, ovvero "On the road"
(http://ildubbio.news/ildubbio/2017/05/31/kerouac-andava-andava-mica-sapeva-nacque-la-beat-generation).
Romanzo più famoso ma, a mio parere,
non il migliore che fu senza dubbio "I vagabondi del Dharma"
e la sua ricerca di una spiritualità libera dai condizionamenti e
persino "Big Sur", romanzo critico nei confronti dei
capelloni e degli yippie, scritto nel periodo della sua massima
decadenza fisica e che rappresenta un rifiuto dell'immagine di
Kerouac nei confronti dell'etichetta/immagine che gli è stata
affibbiata addosso dal mainstream, ovvero di ragazzo sempre giovane,
girovago, sregolato.
Kerouac era un libertario senza
etichette, che non gliene fregava nulla della politica e, se proprio
doveva scegliere, era anticomunista e conservatore.
Kerouac non ebbe mai la pretesa di
dimostrare nulla. Era sregolato, certo, ma non gliene fregava nulla
di esserlo, anzi, spesso ci soffriva persino. Amava la spiritualità
in tutte le sue forme. Era cattolico, buddhista, erotico,
eretico.
Amava i gatti e le donne. Ed era mammone.
Amava bere e fumare. Era triste e malinconico.
Era un "qualunquista" non qualunque e ciò, come ha scritto Lanna, una volta approdato in Italia Kerouac non sarà compreso a causa del conformismo culturale italiano in tutte le sue "egemonie" da quella catto-conservatrice a quella togliattian-marxista e liberal-crociana.
Amava i gatti e le donne. Ed era mammone.
Amava bere e fumare. Era triste e malinconico.
Era un "qualunquista" non qualunque e ciò, come ha scritto Lanna, una volta approdato in Italia Kerouac non sarà compreso a causa del conformismo culturale italiano in tutte le sue "egemonie" da quella catto-conservatrice a quella togliattian-marxista e liberal-crociana.
Oggi lo spontaneismo di Kerouac e dei
Beat, anche di quelli più "impegnati", manca davvero.
Kerouac andava, andava, andava, senza sapere dove. Non aveva un
programma imposto o auto-impostosi da una società
capital-collettivistico-liberal-globalista fatta del preciso schema:
nasci- produci-consuma-crepa. Ovvero svegliati, vai al lavoro, vai in
palestra, dall'estetista, usa lo smartphone, mangia sushi, posta foto
su instagram ecc...
Oggi un Kerouac sarebbe forse preso per
uno zotico ubriacone e la sua interiorità sarebbe fatta a pezzi
dalla pubblicità commerciale, eletta a nuovo culturame assieme
all'ultimo libro di grido di Roberto Saviano, all'ultimo programma di
Maria De Filippi o all'ultimo romanzo di E. L. James.
Oggi Kerouac semplicemente non
esisterebbe. O forse esiste ancora. Oltre lo schermo di questo
computer. Oltre il web, le mode, le puttanate smartphonizzate
cinesizzate yankezzate giapponesate sushizzate inglobalizzate.
Forse Kerouac è proprio lì sotto.
Nascosto in qualche punto recondito del cervello di ciascuno di noi.
E' il ribelle che non si è fatto sottomettere dal totalitarismo
consumista, dal benessere effimero, dalla società giovanilista senza
alcun futuro perché non ha alcun passato.
Per Kerouac l'unica gente possibile
erano i pazzi, i pazzi di vita, i pazzi entusiasti, i pazzi
appassionati che mai si annoiano o dicono luoghi comuni. I pazzi che
bruciano come favolosi fuochi artificiali.
Kerouac, questo mondo, questa società,
ovvero l'evoluzione/involuzione di quella nella quale lui stesso
visse - l'America Way of Life Anni '50 - e che già ai suoi tempi
rifiutò, non l'avrebbe compresa. Perché era è già intimamente
morta.
Luca Bagatin
Kerouac andava, andava, mica sapeva dove…e nacque la Beat generation
Sessant’anni fa usciva “On the road”, di Jack Kerouacdi Luciano Lanna per "Il Dubbio"
Era la Beat generation uno dei fenomeni esistenziali e
creativi più interessanti che il dopoguerra americano. E Jack Kerouac
era il suo profeta. Sebbene non avesse la patente di guida… On the Road
è il suo romanzo più famoso. Uscì nel 1957. In questi giorni compie 60
anni. In Italia fu accolto male. Alla nostra intellettualità non piaceva
tanto individualismo. Anche Montale lo detestò.
«Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade»,
disse una volta Ezra Pound. E con lo sguardo sull’America degli anni ’
50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: «Nomadi con il sacco
sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle
generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a
lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze
che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi
televisivi, macchine, almeno macchine nuove ultimo modello, certe
brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una
settimana dopo si finisce col vedere nell’immondezza, tutti prigionieri
di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”:
ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o
addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno
zaino».
Era la beat generation, uno dei fenomeni esistenziali e
creativi più interessanti che il dopoguerra americano trasmetteva alla
vecchia, disincantata e conformista Europa. E Jack Kerouac era il suo
profeta: nato il 12 marzo ’ 22 a Lowell, nel Massachusetts, lo “sciamano
del beat” ha espresso in pieno lo spirito dei giovani della sua epoca,
anche attraverso le sue personali contraddizioni. Sebbene non avesse la
patente di guida, adorasse sia la mamma che l’America, si proclamasse
cattolico e anticomunista, e sebbene fosse un appassionato di baseball e
non amasse i militanti delle battaglie politiche, rappresenterà per
sempre l’icona libertaria di una vita autenticamente inquieta, libera e
sfrontata.
On the Road (“Sulla strada”), il suo romanzo più
famoso, racconta in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno
scrittore, Sal Paradise, che gira mezza America con passaggi in auto, e
in questo modo interpreta e celebra al meglio lo spirito di una rivolta
generazionale che stava covando nelle giovani generazioni dalla seconda
metà degli anni ’ 50. «Ai tempi che Kerouac mise in moto tutta questa
baracca – ha raccontato la principale ambasciatrice e traduttrice della
cultura beat in Italia, Fernanda Pivano, di cui il prossimo 18 luglio
ricorre il centenario della nascita – era soprattutto una go generation.
Dove andassero non lo sapevano di certo, quei dolci insopportabili patetici insolenti hipster
dal volto d’angelo che zigzagavano gli Stati Uniti come noi più tardi
le nostre piazze del Duomo in cerca di altri amici con cui andare, dove,
chi lo sa, ma andare».
L’intuizione era proprio quella. «La strada è la vita»,
afferma Dean Moriarty ( Neal Cassady nella vita reale) in un passo di On
the Road. Un’idea prossima alla “festa mobile” evocata da Hemingway in
riferimento a un’altra generazione inquieta, quella degli anni ’ 20. Ma
negli anni ’ 50 molte cose sono cambiate. A proposito di Cassady,
Kerouac scrive che «la sua anima è racchiusa in una veloce automobile»,
una metafora in cui c’è tutto il bisogno di una generazione di andare
oltre, di spostarsi, di cercare nuovi orizzonti, di proporsi come
moderni cavalieri erranti. Paradossalmente, il co- protagonista di On
the Road cerca inutilmente di insegnare a guidare l’auto a Kerouac e a
fargli prendere la patente. «Keroauc – annota Emanuele Bevilacqua in
Guida alla beat generation ( Edizioni Theoria) – è a disagio al volante e
non approfitta del suo alter- ego Sal Paradise per trasformarsi in un
mago delle quattro ruote. Quando prende il volante finisce subito in un
fosso e gli altri sono peggio di lui. E di autostop nemmeno a parlarne.
Son più le volte che sono costretti a prendere un autobus, il Greyhound,
che le occasioni di acciuffare un bel passaggio».
D’altronde, la vocazione iniziale di Jack era infatti
genuinamente letteraria. Racconta il suo biografo Steve Turner: «Dopo
aver letto Thomas Wolfe, la sua ambizione non fu quella di arrivare
all’apice della carriera e di guadagnarsi ricchezza e rispetto, ma di
esplorare quel grande continente. C’era un’altra America là fuori, che
nessuno cantava; un’America cruda, primitiva, dove lo spirito era
rimasto indomito e non era stato plasmato dalla infaticabile macchina
del materialismo moderno». E così scoprì il vagabondare come scelta di
vita. On the Road: sulla strada, appunto. «Andare sempre, non importa
dove», era per Kerouac l’unica filosofia possibile «in questa società di
merda», come era solito affermare.
E così, sessant’anni fa, il 1957 – anno di pubblicazione
negli Stati Uniti di Sulla strada – diventa l’“anno uno” dell’era beat:
più che un successo letterario, un fenomeno esistenziale e di costume,
una rivoluzione nell’immaginario occidentale. «La prima tappa – scrive
Vito Amoruso in La letteratura beat americana
( Laterza) – sarà, dunque, On the Road, il
romanzo che, nel 1957, segnò la nascita ufficiale, quella letteraria,
della leggenda della beat generation: i fatti, le avventure, le
scorribande, le immense orge d’automobili e di sesso e di alcool di cui
questo romanzo parlava, erano, in verità, accaduti già prima, in una
sorta di America sotterranea e anti- ufficiale, a ridosso immediato del
dopoguerra».
Per mettere su carta questa rappresentazione, a Kerouac
bastarono ventuno giorni. Certo, già dal ’ 48 aveva lavorato a una sua
prima stesura. Ma è nel ’ 51 che ci riprova in uno stile molto
céliniano: senza segnare, senza punteggiatura, senza paragrafi e senza
spaziature nel testo. Lo scrive su un unico rotolo di carta continua da
teletrasmissione. «Per conto suo – ha spiegato uno dei principali sodali
della beat generation, il poeta Allen Ginsberg – Kerouac, alla fine
degli anni 40 e all’inizio dei 50, dal suo orecchio e dalla sua
preoccupazione per i cambiamenti di ritmo che avevano luogo nella musica
be- bop, aveva cominciato a scrivere lunghe frasi in prosa, simili al
respiro dei negri e al ritmo negro nella musica bop esemplificata dalle
cadenze della tromba “volo d’uccello” di Charlie Parker. Kerouac ha
incominciato a imitare il jazzista molto consapevolmente».
Insomma, dopo aver rivestito anche di basi teoriche
questa intuizione, comincia a sperimentare una scrittura tutta jazzata e
sincopata. Meglio: quello che Cèline aveva fatto per lo swing e il jazz
classico, Keroauc lo fa per il bebop. Tanto che, esplorando i lavori
dei pittori astratti oltre che dei jazzisti, arriva a definire la
tecnica dello sketching: per il giovane scrittore è l’atto stesso dello
scrivere che scatena le emozioni e lascia scorrere in libertà i
pensieri.
Non passa neanche un anno, siamo nel 1958, che Nanda
Pivano – traduttrice, critica e intellettuale che era stata amica e
compagna di classe di Cesare Pavese – farà tradurre e pubblicare il
romanzo da Mondadori. E Kerouac arriverà nelle librerie italiane proprio
mentre anche da noi si modificavano abbigliamento, linguaggi, gusti
musicali, comportamenti nel mondo giovanile. Irrompeva il rock’n roll,
iniziavano a incidere i loro primi dischi i cantautori, cominciavano
ovunque a cambiare i punti di riferimento culturali, sociali e anche
politici. Non a caso, Sulla strada sarà subito un successo e un cult.
«Nei primi anni ’ 60 – ha raccontato di recente l’attore e regista
teatrale Franco Branciaroli, intervistato da Antonio Gnoli per
Repubblica – si parlava tantissimo di Kerouac. Decisi di leggere anch’io
Sulla strada. Non a casa, ma in macchina. Con lo stereo che mandava musica. E io mi dicevo: leggi, leggi ’ sto Kerouac».
On the Road sarà la punta di un iceberg che, via
via, insieme alle opere degli altri esponenti della beat generation –
Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs, Gary
Snyder, Ed Sanders, Peter Orlovsky – trasporterà idee e musica inedite:
le ballate di Bob Dylan e Joan Baez, la musica di Leonard Cohen, le
teorie sulla liberazione sessuale di Wilhelm Reich, la letteratura di
Henry Miller, le filosofie orientali divulgate da Alan W. Watts,
l’esoterismo di Gurdjeff, il Living Theatre, la passione per i Ching… Da
noi, il conformismo italiano – in tutte le sue varianti egemoni,
cattolico- conservatrice, togliattian- marxista e liberal- crociana –
non potrà non fare muro contro questa sensibilità. È un clima dominante
rievocato dalla stessa Nanda Pivano: «In quegli anni era molto chiara
l’ostilità anche della sinistra italiana verso autori come Kerouac,
Ginsberg, Ferlinghetti. Io sono stata licenziata dalla Mondadori, dove
lavoravo come consulente, perché facevo pubblicare solo le opere dei
miei amici, quegli autori beat sgraditi all’élite intellettuale di
sinistra. Eugenio Montale era un esempio illustre degli italiani che
detestavano quegli scrittori anticonformisti».
In Italia, insomma, il libertario Kerouac sarà sempre
nel mirino di un certi ambienti intellettuali, giornalistici e
accademici. Lo stesso critico Vito Amoruso lo taccerà di «egoismo
individualistico e antisociale», di «borghesismo», di «fedeltà
all’establishment». E ancora nel 1977, a dieci anni dalla contestazione,
nell’Agenda rossa pubblicata da Savelli, la definizione di Kerouac è da
manuale: «Pessimo scrittore, mediocre filosofo e politico qualunquista.
I suoi personaggi sono i simboli del rifiuto del lavoro, dei valori
costituiti, della rispettabilità.
Vagabondi eternamente sovraeccitati, rifiutano però, oltre il lavoro e la famiglia, anche l’impegno, l’intelligenza, la lotta».
Ai marxisti- leninisti di stretta osservanza, ai
depositari del senso della rivoluzione e ai custodi dell’ideologia, quei
libertari irrazionali e individualisti, sempre in cerca di una via
personale alla spiritualità, non potevano che apparire urticanti. E
forse non potevano proprio piacere quei ragazzi che – come li descriveva
la Pivano nel 1958 nella prefazione a Sulla strada – erano
«costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a
credere, e pertanto ritengono incapace di rispondere alle loro domande,
spesso la sfuggono creandosi una società autonoma, e vivono in piccole
bande più o meno segrete secondo un codice primordiale, basato
sull’inviolabilità dell’amicizia».
Non piacevano quei ragazzi e quegli scrittori, come non
piacevano i maestri che si erano scelti: un maledetto come Céline, un
irregolare come John Fante, per non dire del principale ispiratore
poetico e linuistico: Ezra Pound. Le conferme non mancano. Durante la
campagna presidenziale statunitense del 1952 che vide la vittoria di
Eisenhower, i beatnik arrivarono a scrivere «Ez for Pres» – ossia “Ezra
Pound come presidente” – sulla cinta esterna del St. Elizabeth’s
Hospital, il manicomio dove il grande poeta americano era recluso da
sette anni per collusione col fascismo e dove rimarrà sino al suo
ritorno in Italia nel ’ 58. Era sicuramente un debito di riconoscenza
verso un maestro – talent scout, tra i tanti, di Eliot, Joyce e
Hemingway – sempre caro alla beat generation, tanto che lo stesso
Kerouac farà dire a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma: «Pound era un buon diavolo, anzi il mio poeta preferito».
Nel 1967, cinquant’anni fa esatti, Allen Ginsberg – autore della celebre poesiascandalo Urlo che da noi ispirò anche
Dio è morto di Guccini – venne in Italia proprio
per incontrare Pound, il quale, uscito, dal manicomio, viveva da
qualche anno tra Rapallo e Venezia. È famosa la foto che ritrae il
vecchio poeta assieme a Ginsberg e alla Pivano a Portofino il 23
settembre di quell’anno. Comunque, quando Ginsberg, poeta ebreo
buddista, come amava definirsi, incontrò l’autore dei Cantos – il
“miglior fabbro” del Novecento, per dirla con Eliot – in segno di
omaggio non volle recitargli nessuna sua poesia. Piuttosto, dopo una
amabile cena, arrotolò della marijuana in una cartina per sigarette, e
senza una parola, iniziò a fumare. «Poi – riferisce il giornalista Mark
Kurlansky – mise su per Pound dei dischi: Yellow Submarine e Eleanor Rigby dei Beatles, Sad- Eyed Lady of the Lowland, Absolutely Sweet Mary e Gates of Eden di Bob Dylan, e Sunshine Superman
di Donovan. Ascoltandoli – rileva Kurlansky – Pound sorrideva, sembrava
apprezzare in particolare certi versi». E con soddisfazione, conclude,
batteva il tempo con il suo bastone dal manico d’avorio.
C’è anche questo nel profondo della cultura beat,
insomma. Tanto è vero che quando il 5 aprile di vent’anni fa – ancora un
anniversario in cui incorre in questo 2017 la beat generation – si
spegneva a quasi settantun anni anche Ginsberg, nel gruppetto di amici
che circondavano il suo capezzale c’era anche la cantautrice Patti
Smith. La quale gli lesse, non a caso, alcuni versi scelti dai Cantos di
Ezra Pound.
Luciano Lanna