La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di questa deriva?
La si può spiegare unicamente con l’opportunismo dei singoli, ex
rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza
dell’avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura
storica, cioè del crollo del blocco sovietico che ha annientato l’idea
di una credibile alternativa al sistema di mercato?
Ne Le complexe d’Orphée,
il suo ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una risposta più
originale e anche più profonda: la sinistra si è separata dal popolo
perché ha aderito molto presto all’ideologia del progresso, che
contraddice nettamente tutti i valori popolari .
Fondamentalmente
orientata verso l’avvenire, la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza
le nozioni di «tradizione», «consuetudine», «radicamento», vedendovi
solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale marcia in avanti
del progresso. Tendendo all’unificazione del genere umano e
contemporaneamente all’avvento di un universo «liquido» (Zygmunt
Bauman), la teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di
appartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica
della base organica e simbolica delle solidarietà tradizionali (come
fece in Inghilterra il celebre movimento delle enclosures, che costrinse
all’esodo migliaia di contadini privati dei loro diritti
consuetudinari, per convertirli in manodopera proletaria sradicata e
dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle fabbriche ). In
un’ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così com’era
una volta rientra dunque necessariamente nell’ambito di un passatismo
«nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di
ammettere che i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un
qualsiasi attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva
ancora ieri tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o
addirittura, per i più empi tra loro, una natura irrimediabilmente
“reazionaria”» . Il mondo nuovo deve essere necessariamente edificato
sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione delle radici
forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati
possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher
Lasch).
Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII
secolo, ha accompagnato l’ascesa sociale della borghesia e, con essa, la
diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a
un universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta
ragione, il «regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo
tempo, aveva sottolineato il carattere profondamente borghese
dell’ideologia del progresso). Ma anche antico comportamento monoteista
che scaglia l’anatema contro le realtà particolari in nome
dell’iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento platonico che
discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure .
La teoria
del progresso è direttamente associata all’ideologia liberale. Il
progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla finita
con le guerre civili e di religione, rifiutando al contempo
l’assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo
le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare
la guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi.
Erano favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita
buona», fosse neutro.
Poiché la società non poteva più essere
fondata sulla virtù, il buon senso o il bene comune, la morale doveva
restare un affare privato (principio di neutralità assiologia). L’idea
generale era che si poteva fondare la società civile solo
sull’esclusione di principio di ogni riferimento a valori comuni – il
che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque desiderio o
capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata».
Il progetto
liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto due cose: «Da un lato,
lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei valori morali e
“ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la libertà degli
uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale ha la
stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall’altro, il
mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di
accordarsi pacificamente con i suoi simili sull’unica base
dell’interesse ben compreso delle parti interessate» .
Lo Stato di
diritto «assiologicamente neutro» è in effetti una doppia illusione. In
primo luogo, la sua neutralità è completamente relativa: nella vita
reale, i liberali affermano i loro principi e i loro valori con
altrettanta forza degli antiliberali. Inoltre, la neutralità in materia
di valori (la teoria secondo la quale lo Stato non deve pronunciarsi
sulla questione della «vita buona», perché ciò lo indurrebbe a
discriminare tra i cittadini) sfocia in pratica in contraddizioni
insolubili, come dimostra la teoria dei diritti dell’uomo, che proclama
diritti contraddittori, dato che alcuni di essi possono essere applicati
solo a condizione di ignorarne o violarne altri. Queste contraddizioni
sono costantemente sottoposte a procedure giudiziarie, ma non possono
essere risolte in maniera puramente tecnica o procedurale.
La
dicotomia destra-sinistra viene spesso fatta risalire alla Rivoluzione
francese, dimenticando in tal modo che essa è davvero pienamente entrata
nel discorso pubblico solo alla fine del XIX secolo. Alla vigilia della
Rivoluzione, lo spartiacque principale non oppone la «destra» e la
«sinistra», ma un’aristocrazia fondiaria dotata di potere politico e una
borghesia mercantile acquisita alle idee liberali. Nessuno, in
quell’epoca, difende veramente il popolo. Retrospettivamente, il libro
di Michéa spiega d’altronde anche l’ambiguità della Rivoluzione
francese: rivoluzione borghese, ma fatta in nome del «terzo stato» (e
soprattutto della «nazione»), ispirata al contempo alle idee di Rousseau
e del liberalismo dei Lumi, «progressista» con Condorcet, m affascinata
dal’Antichità con Robespierre o Saint-Just.
Durante tutta la prima
parte del XIX secolo, sono appunto i liberali a formare il cuore della
«sinistra» parlamentare dell’epoca (il che spiega il senso che ha
conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I liberali
riprendono quell’idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere
nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto
emancipatore per eccellenza e l’unica via d’accesso a una società
“universale” e “cosmopolita» . Benjamin Constant, per citare solo lui, è
il primo a celebrare quella disposizione della «natura umana» che
induce a «immolare il presente all’avvenire».
Mentre la III
Repubblica vede la borghesia assumere a poco a poco l’eredità della
rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura in
associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare
solo verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel
momento in cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il
diritto di sciopero è riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della
fondazione della I Internazionale. Orbene, i primi socialisti, la cui
base sociale si torva soprattutto tra gli operai di mestiere, non si
presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa ricorda,
d’altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di
destra» e che non sarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Proudhon, a
Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di sinistra». A parte i
«radicali», la «sinistra», all’epoca, non designa niente.
In
origine, il movimento socialista si pone, in effetti, come forza
indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei
«reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra».
Ovviamente, si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie
dell’Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia
liberale – ma si oppone ugualmente all’individualismo dei Lumi,
ereditato dall’economia politica inglese, con la sua apologia dei valori
mercantili, già così ben criticati da Rousseau. Esso, dunque, non
abbraccia le idee della sinistra «progressista» e comprende bene che i
valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche quelli cui si
richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà,
lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il
capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la
«sinistra» progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre,
molto differente dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà
all’indomani della Prima Guerra mondiale.
È, d’altronde, contro il
riformismo e il parlamentarismo della «sinistra» che il socialismo
proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano oppongono allora
l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà
rivoluzionaria all’opera nell’«azione diretta» – ideale che si
cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.
I
primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato. Più
esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime,
rientrava nell’ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi
rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la
Gemeinwesen di Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che
lo sottendevano. «Per i primi socialisti, era chiaro che una società
nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune
che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non
poteva costituire una comunità degna di questo nome» . Proprio per
questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici socialisti, affermava
non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma
che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni
tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».
Per il popolo, il passato non era soltanto ciò che gli permetteva di
inscriversi in una filiazione e in una continuità storiche particolari,
ma ciò che gli permetteva di giudicare il valore delle innovazioni che
gli venivano proposte. Da questo punto di vista, la «tradizione» era più
una protezione che una costrizione. In passato, molte rivolte popolari
avevano già trovato la loro origine in una volontà chiaramente
manifestata di difendere le consuetudini e le tradizioni popolari contro
la Chiesa, la borghesia o i principi. Il motivo di ciò è che sono le
consuetudini, le tradizioni, le forme particolari della vita locale,
ossia le comunità radicate, a permettere da sempre l’emersione di un
mondo comune e a costituire, ugualmente da sempre, il quadro nel quale
«possono dispiegarsi le strutture elementari della reciprocità e dunque,
ugualmente, le condizioni antropologiche dei differenti processi etici e
politici che permetteranno eventualmente di estenderne il principio
fondamentale ad altri gruppi umani, se non addirittura all’intera
umanità» .
Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto
l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano
perfettamente coscienti che è «sempre a partire da una tradizione
culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente
universali» e che «in pratica, l’universale non può mai essere
costruito sulla rovina dei radicamenti particolari» . Per dirla con lo
scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il
locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente
legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua
storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado
di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei
confronti della propria comunità», scrive ancora Michéa, «possiamo
concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della
lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al
contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito
internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del
progetto socialista» .
Come il patriottismo non deve essere confuso
con il nazionalismo (di destra»), così l’internazionalismo non deve
essere confuso con il cosmopolitismo (di «sinistra»). Poiché l’abbandono
o l’oblio della propria cultura rendono incapaci di comprendere
l’attaccamento degli altri alla loro, il risultato dell’universalismo
astratto non è il regno del Bene universale, ma la realizzazione di un
«universo ipnotico, glaciale e uniformato» il cui soggetto è
quell’essere narcisistico pre-edipico, immaturo e capriccioso che è il
consumatore contemporaneo.
In Francia, l’alleanza storica tra il
socialismo (influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal
marxismo) e la «sinistra» progressista si instaura all’epoca dell’affare
Dreyfus (1894). Svolta profondamente negativa. Nato dalla
preoccupazione di una «difesa repubblicana» contro la destra monarchica,
clericale o nazionalista, si delinea un compromesso che partorirà in
primo luogo i cosiddetti «repubblicani progressisti». Si crea allora una
confusione tra ciò che è emancipatore e ciò che è moderno, i due
termini essendo a torto ritenuti sinonimi.
È in questo momento,
scrive Michéa, che il movimento socialista è stato «progressivamente
indotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavoratori contro il
dominio borghese e capitalista quella che avrebbe presto opposto – in
nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di sinistra” e un
“popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente
scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente
più vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del
FMI che a un operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi
voti alla destra)» . Questo compromesso ha assunto due aspetti: «Da un
lato, ha portato ad ancorare il liberalismo – motore principale della
filosofia del Lumi – nel campo delle “forze di progresso” […]
Dall’altro, ha contribuito a rendere in anticipo illeggibile
l’originaria critica socialista, poiché quest’ultima sarebbe nata
appunto da una rivolta contro la disumanità dell’industrializzazione
liberale e l’ingiustizia del suo diritto astratto» .
Allora – e
soltanto allora – la causa del popolo ha cominciato a divenire sinonimo
di quella di progresso, all’insegna di una «sinistra» che voleva essere
anzitutto il «partito dell’avvenire» (contro il passato) e
l’annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in
marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva
situare «a sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò
che aveva ancora il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del
paese d’origine, delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento
su se stessi” o degli attaccamenti “irrazionali” a esseri e luoghi)» .
Il movimento socialista, e poi comunista, riprenderà dunque per proprio
conto l’ideale «progressista» del produttivismo ad oltranza, di quel
progetto industriale e iperurbano che ha completato lo sradicamento
delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili all’influenza
della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’ideale abbia
ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i
contadini).
D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava
credere alla promessa di una marcia in avanti dell’umanità verso un
universo radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali
della ragione. Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra
coloro che, per principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu
intimato a Orfeo. (Di qui il titolo del libro di Jean-Claude Michéa:
disceso nel regno dei morti con la speranza di ritrovare Euridice e di
riportarla nel mondo dei vivi, Orfeo si vede proibire da Ade di voltarsi
indietro, altrimenti perderà per sempre la sua bella. Beninteso, egli
violerà all’ultimo momento questa proibizione). A questa deriva, in cui
vede a giusta ragione un’impostura, si oppone Michéa con una fermezza
pari al suo talento.
Separato dalle sue radici, il movimento
operaio è stato nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi
della sua autonomia. Come aveva ben visto George Orwell, la religione
del progresso priva infatti l’uomo della sua autonomia nel momento
stesso in cui pretende di garantirla emancipandolo dal passato. Orbene,
sottolinea Michéa, «dal momento in cui un individuo (o una collettività)
è stato spossessato dei mezzi della sua autonomia, non può più
perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi artificiali. Ed è
appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il consumo, la moda e
lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di compensazione
illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata» .
Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo sarà nello
stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale, perché
la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già
mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del
capitalismo, cui riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e
annegato tutti gli antichi valori nelle «gelide acque del calcolo
egoistico». A questo tratto fondante se ne aggiunge un altro, tipico
delle forme moderne di questo stesso capitalismo. «Una economia di
mercato integrale», spiega Michéa, «può funzionare durevolmente solo se
la maggior parte degli individui ha interiorizzato una cultura della
moda, del consumo e della crescita illimitata, cultura necessariamente
fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del capriccio
individuale e del godimento immediato […] Dunque, è proprio il
liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l’austerità
religiosa) a costituire il complemento psicologico e morale più efficace
di un capitalismo di consumo» . Ora, diventando «di sinistra», il
socialismo ha fatto suoi anche i principi del liberalismo culturale. La
sinistra «permissiva» è così divenuta il naturale humus di espansione
della Forma-Capitale. È il capitalismo che permette meglio di «godere
senza ostacoli»!
Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», si
troveranno dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose
totalmente differenti: da una parte, la giusta protesta morale della
classe operaia contro la borghesia capitalista, e, dall’altra, la
credenza liberale borghese in una teoria del progresso la quale afferma,
in linea di massima, che «prima» non ha potuto che essere peggiore e
che «domani» sarà necessariamente migliore. In effetti, il movimento
socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto
«progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla
teoria (o alla religione) del progresso – cioè alla metafisica
dell’illimitato – che costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e
dunque della filosofia liberale. Essendo la teoria del progresso
intrinsecamente legata al liberalismo, la «sinistra», diventando
«progressista», si condannava a confluire un giorno o l’altro nel campo
liberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismo culturale annunciava
già il capovolgimento nel liberalismo economico. L’ultimo bastione a
cedere è stato il partito comunista, che ha progressivamente smesso di
svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato il successo: fornire
«alla classe operaia e alle altre categorie popolari un linguaggio
politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una certa
fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi» .
Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso, essere detto
della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha aderito al
liberalismo economico perché era già acquisita all’idea di progresso e
al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo
dei costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. È,
infatti, completamente illusorio credere che si possa essere
durevolmente liberali sul piano politico o «societale» senza finire col
diventarlo anche sul piano economico (come crede la maggioranza delle
persone di sinistra) o che si possa essere durevolmente liberali sul
piano economico senza finire col diventarlo anche sul piano politico o
«societale» (come crede la maggioranza delle persone di destra). In
altri termini, c’è un’unità profonda del liberalismo. Il liberalismo
forma un tutto. Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono
possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso», corrisponde
l’imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile difendere
al contempo i «valori tradizionali» e un’economia di mercato che non
smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale
(ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente
dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come
quest’ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato» .
Ciò spiega che destra e sinistra confluiscano oggi nell’ideologia dei
diritti dell’uomo, il culto della crescita infinita, la venerazione
dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di profitti. Il che ha
almeno il merito di chiarire le cose.
La sinistra si è molto presto
convinta che la globalizzazione del capitale rappresentava una
evoluzione ineluttabile e un avvenire insuperabile, con la politica che,
nello stesso tempo, si adattava alla globalizzazione economica e
finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sinistra ne è stata
la conseguenza più clamorosa.
Il Club Jean Moulin aveva aperto la
strada negli anni sessanta. La «seconda sinistra» rocardiana negli anni
settanta, la Fondazione Saint-Simon negli anni ottanta hanno
approfondito la breccia attraverso la quale la sinistra ha cominciato a
puntare sulla «società civile» contro lo Stato e a confluire nel modello
del mercato. Nella stessa epoca, il liberalismo culturale trionfa, il
che si traduce in uno spostamento dei dibattiti politici verso le poste
in gioco della società e verso nuovi gruppi sociali in via di
autonomizzazione (donne, immigrati, omosessuali, ecc.). Infine, il
denaro si impone come equivalente universale nell’ambito dei valori. «Il
vincitore», ha osservato Jacques Julliard, «fu Alain Minc […] il quale
aveva compreso che, assumendo le idee della seconda sinistra, si poteva
fare un buonissimo deal con il neocapitalismo che si stava imponendo» .
È emersa così una sinistra «i cui dogmi sono l’antirazzismo, l’odio dei
limiti, il disprezzo del popolo e l’elogio obbligatorio dello
sradicamento» . È così che l’immaginario della «sinistra moderna» –
simboleggiata in Francia da Le Monde, Libération, Les Inrockuptibles e
altri insigni rappresentanti del «circolo della ragione» ideologicamente
dominante – è arrivato a confondersi con quelli dei padroni della BCE e
del Fondo monetario internazionale. Ed è altresì per questo che «dietro
la convinzione un tempo emancipatrice che non si arresta il progresso,
[è diventato] sempre più difficile ascoltare qualcosa di diverso
dall’idea, attualmente dominante, secondo la quale non si arrestano il
capitalismo e la globalizzazione» . Ormai, la sinistra celebra la
crescita, ossia la produzione di merci all’infinito, negli stessi
termini dei liberali. Là dove gli uni parlano di
«deterritorializzazione» (alla maniera di Deleuze-Guattari o di Antonio
Negri), gli altri parlano di «delocalizzazioni». Per quanto concerne
l’immigrazione, esercito di riserva del capitale, la sinistra «moderna»
usa lo stesso linguaggio di Laurence Parisot («meticciato» e «nomadismo»
trasformati in norme). Influenzata da coloro che hanno «distrutto il
socialismo convertendolo nell’individualismo dei diritti universali e
del liberalismo integrale» (Hervé Juvin), il nemico non è più il
capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il «reazionario»
che ha il torto di rimpiangere il passato.
«È dunque normale»,
prosegue Michéa, «che la sinistra “civica” (quella che ha rotto con ogni
sensibilità popolare e socialista) appaia oggi come il luogo politico
privilegiato dove sono elaborate tutte le trasformazioni giuridiche e di
civiltà richieste dal mercato mondiale. Insomma, essa non è altro che
il pesce-pilota del capitalismo senza frontiere o, se si preferisce,
l’avanguardia culturale militante della destra liberale» .
I
«valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori
«progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle
frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe
droghe, ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo
disaccordo o di cui si disinteressa totalmente. Per la sinistra
«moderna», che realizza l’alleanza dei funzionari, delle classi borghesi
superiori, degli immigrati e dei radical chic, «rifiutare l’oscura
eredità del passato (che, a priori, non può non richiamare atteggiamenti
di “pentimento”), combattere tutti i sintomi della febbre “identitaria”
(ossia, in altri termini, tutti i segni di una vita collettiva radicata
in una cultura particolare) e celebrare all’infinito la trasgressione
di tutti i limiti morali e culturali tramandati dalle precedenti
generazioni (il regno compiuto dell’universale liberale-paolino dovendo
coincidere, per definizione, con quello dell’indifferenziazione e
dell’illimitatezza assolute) è tutt’uno» . Non si parla più del
capitalismo o della lotta di classe, e ovviamente di quella anticaglia
della rivoluzione. Persino il partito comunista ha quasi soppresso la
parola «socialismo» dal suo vocabolario. Avendo perduto la sua identità
ideologica, non è più in grado di influenzare la corrente
socialdemocratica da cui dipende elettoralmente .
Poiché
l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte
le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il
risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega»,
constata Jean-Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente
divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni
ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico
proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla
sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo
legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più
disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica» . La sinistra
cerca dunque un «popolo di ricambio». La fondazione Terra Nova, fondata
nel 2008 da persone vicine a Dominique Strauss-Kahn e presieduta dal
socialista Olivier Ferrand, si è resa celebre pubblicando, nel maggio
2011, un rapporto che suggerisce al partito socialista di rifondare la
sua base elettorale su un’alleanza tra le classi agiate e le «minoranze»
delle periferie, abbandonando operai e impiegati ai loro «valori di
destra» (critica dell’immigrazione, protezionismo economico e sociale,
promozione di norme forti e di valori morali, lotta contro
l’assistenzialismo, ecc.). Il testo del rapporto è molto chiaro:
«Contrariamente all’elettorato storico della sinistra, coalizzato dalle
poste in gioco socio-economiche, questa Francia di domani è unificata
anzitutto dai suoi valori culturali progressisti». «Tra i due perdenti
della globalizzazione – gli immigrati ghettizzati e i modesti salariati
minacciati – la sinistra in stile Terra Nova sostiene ormai i primi a
scapito dei secondi» .
Non è quindi sorprendente che il popolo si
distolga da una sinistra affascinata più dal people e dalla «plebaglia»
che dai lavoratori, che si dichiara per la globalizzazione, sebbene
quest’ultima sia anzitutto quella del capitale, si interessa più alle
iniziative «civiche» che alle trasformazioni strutturali, alla società
protettiva del care più che alla giustizia sociale, alla vita
associativa più che alla politica, allo spettacolo mediatico più che
alla sovranità del popolo, al consenso sociale più che alla lotta di
classe – e, come i liberali, concepisce l’interesse generale solo come
semplice somma degli interessi particolari. Il popolo non si riconosce
più in una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro
di «antifascismo», il socialismo con l’individualismo radical chic e
l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’«immigrazionismo», prova
solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo
celebrando al contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in
pratiche «civiche» e in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la
notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo
vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di
marginali.
Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso,
si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come
«populisti» (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe).
Citiamo ancora Michéa: «Tra la rappresentazione colpevolizzante della
società ormai imposta dalla sociologia ufficiale (una minoranza di
esclusi, relegati nei “ghetti etnici”, sottomessi a tutte le
persecuzioni possibili e accerchiati da una Francia “di villette” che si
presume appartenere alle classi medie) e l’oscura realtà vissuta da
queste categorie popolari, al contempo maggioritarie e dimenticate, la
distanza è divenuta assolutamente surreale. Il risultato è che le
principali vittime degli aspetti nocivi della globalizzazione non
trovano più nel linguaggio politicamente corretto della sinistra moderna
la minima possibilità di tradurre la loro esperienza vissuta» .
«Minando alla base ogni possibilità di legittimare un qualunque giudizio
morale (e, di conseguenza, rifiutando simultaneamente di comprendere
l’uso popolare delle nozioni di merito e responsabilità individuale), la
sinistra progressista si condanna inesorabilmente a consegnare ai suoi
nemici di destra interi pezzi di quelle classi popolari che, a modo
loro, non domandano altro che di vivere onestamente in una società
decente […] In realtà, è proprio la stessa sinistra ad aver scelto,
verso la fine degli anni settanta, di abbandonare al loro destino le
categorie sociali più modeste e sfruttate, volendo ormai essere
“realista” e “moderna”, ossia rinunciando in anticipo a ogni critica
radicale del movimento storico che, da oltre trent’anni, seppellisce
l’umanità sotto un “immenso accumulo di merci” (Marx) e trasforma la
natura in deserto di cemento e acciaio» .
Georges Sorel diceva che
«il sublime è morto nella borghesia, che è dunque condannata a non avere
più una morale». Anche Michéa parla di morale. Ma qui non si tratta del
«sublime», bensì della decenza comune (common decency) tanto spesso
celebrata da Orwell.
«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò
che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere
conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso
dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che
la rivolta dei primi socialisti contro un mondo fondato sul solo calcolo
egoistico sia stata così spesso sostenuta da una esperienza morale» .
Si pensi alla «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale sociale» di cui
parlava Benoît Malon. La «decenza comune», che è mille miglia lontana da
ogni forma di ordine morale o di puritanesimo moralizzatore, è infatti
uno dei tratti principali della «gente normale» ed è nel popolo che la
si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità, il senso
dell’onore, la solidarietà ed è all’opera nella triplice obbligazione di
«dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento
del dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato
la protesta contro l’ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire
l’immoralità di un mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato
e la trasgressione permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che,
oggi, protesta con tutta la sua forza contro quella sinistra «moderna»
di cui un Dominique Strass-Kahn è il simbolo e nella quale non si
riconosce più. «Da questo punto di vista», scrive Michéa, «il progetto
socialista (o, se si preferisce l’altro termine utilizzato da Orwell,
quello di una società decente) appare proprio come una continuazione
della morale con altri mezzi» .
Come si è capito, Michéa non
critica la sinistra da un punto di vista di destra – e ce ne rallegriamo
– bensì in nome dei valori fondanti del socialismo delle origini e del
movimento operaio. Tutta la sua opera si presenta, d’altronde, come uno
sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo delle origini e
porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo la
difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino
valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati
spesso l’unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più
sfruttati.
Non è un punto di vista isolato. Il percorso di
Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove
troviamo, in primo luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale
Michéa ha dedicato un libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come
pure Christopher Lasch, teorico di un «populismo» socialista e
comunitario, grande avversario dell’ideologia del progresso , di cui ha
contribuito più di chiunque altro a far conoscere il pensiero in
Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane Marx
critico dei «diritti dell’uomo», i primi socialisti francesi, William
Morris, Charles Péguy e Chesterton, l’Antonio Gramsci che sottolinea
l’importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari
(colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e
necessario tanto quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e
la sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua
denuncia della «sinistra divina», i films di Ken Loach e di Guédiguian,
la canzoni di Brassens, senza dimenticare Walter Benjamin, Cornelius
Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche , ecc.
Michéa paragona il liberalismo a un nastro di Möbius, che presenta una
«faccia destra» e una «faccia sinistra», ma senza alcuna soluzione di
continuità. Ciò significa che tra borghesia di destra e borghesia di
sinistra, entrambe eredi della filosofia liberale dei Lumi, ci saranno
sempre più affinità oggettive che tra ciascuna di queste borghesie e gli
antiborghesi del loro campo. E viceversa, che esiste una
complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo
contro la borghesia sfruttatrice, si situino essi ancora a sinistra o
provengano da destra. È ciò che constata Michéa quando scrive: «Poco
importa, in verità, sapere da quale tradizione storica ciascuno ha
tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare i principi
della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente violazione ad
opera del sistema capitalistico» . In un’epoca in cui la sinistra
intende più che mai raccogliere le «forze di progresso», egli non esita a
ad aggiungere che è «la patetica incapacità di assumere [la] dimensione
conservatrice della critica anticapitalistica a spiegare, in larga
parte, il profondo smarrimento ideologico (per non dire il coma
intellettuale irreversibile) nel quale l’insieme della sinistra moderna è
oggi immersa» .
Non avete ancora letto Michéa? Soprattutto, non dite che un giorno lo leggerete. Leggetelo subito. Immediatamente!
(traduzione di Giuseppe Giaccio)