Molti si ricorderanno di Mario
Appignani detto “Cavallo Pazzo” per le sue incursioni televisive
al Festival di Sanremo o a quello di Venezia, tentando di arraffare
il microfono ed interrompere un compassato Pippo Baudo. Oppure le sue
incursioni allo stadio le domeniche pomeriggio degli Anni '90.
Mario è morto di AIDS nel 1996 ed
allora Pippo Baudo, che non conosceva la storia di Appignani, disse
che era affetto da “una complessa forma di esibizionismo” che
“non aveva niente da dire”.
In realtà Mario Appignani, romano,
classe 1954, sin dal 1975, ebbe molto da dire, forse anche più di
quanto l'emblema della mediaticità nazional-popolare baudiana,
intrisa, questa sì, di esibizionismo catodico, abbia mai avuto da
dire dal dopoguerra sino ad oggi.
Quando aveva appena 19 anni, Mario
Appignani, scrisse infatti un bellissimo libro autobiografico che non
è più distribuito da tempo: “Un ragazzo all'inferno”. Il saggio
è edito da Roberto Napoleone, con l'introduzione di Lamberto
Antonelli e con prefazione di Marco Pannella, l'unico politico che
diede voce a questo ragazzo emarginato, senza famiglia, che visse sin
dall'età di 6 anni fra brefotrofi, orfanotrofi, manicomi, case di
cura e di “rieducazione”.
Il piccolo Mario, infatti, è figlio di
Tina, una prostituta - avviata a sua volta alla prostituzione dalla
madre - che non lo può mantenere e così lo lascia sui gradini di
una chiesa. E' così che passerà sotto la “tutela” dello Stato,
con i suoi istituti che fanno parte dell'Opera Nazionale Maternità
ed Infanzia (OMNI), istituita dal fascismo e gestite materialmente
dalla Chiesa cattolica, ricevendo sovvenzioni statali.
Istituti che, in realtà, sono dei veri
e propri lager che, proprio grazie alle denunce di Mario Appignani ed
all'intervento di Pannella e dei radicali, sono state chiuse
definitivamente nel 1975.
“Un ragazzo all'inferno” è un
libro toccante e brutale, a tratti tenero come tenero è il cuore di
Mario, ragazzo che è diventato uno “scapestrato” (bisognerebbe
poi capire se lo è stato per davvero però !) dopo anni di abusi e
sevizie da parte delle suore, dei suoi compagni, dei direttori, delle
forze di polizia e della politica dell'epoca - dalla clerico-fascista
Dc sino all'indifferente e connivente sinistra - sorda di fronte
all'esistenza di bambini e ragazzi poveri e senza famiglia.
E' agghiacciante pensare che, quanto
accaduto a Mario ed ai suoi compagni, accadeva nell'Italia
“repubblicana” di solo quarant'anni fa ! E' agghiacciante pensare
che anche l'Italia “repubblicana” e “antifascista” abbia
avuto i suoi lager e che in essi ci finissero i “reietti” della
società, ancorché bambini (sarebbe da chiedersi se questo i vari
Pippo Baudo ed i vari Bruno Vespa, sostenitori strenui della DC lo
sapessero !).
Mario ci racconta di quando entrò per
la prima volta in un brefotrofio, all'età di soli sei anni. E'
gestito da suore tutt'altro che buone cristiane, che fra le altre
cose somministrano ai bambini dei pasti scarsissimi – al limite
della denutrizione – e spesso pieni di insetti. Le punizioni, poi,
sono da lager nazista: i bambini sono spesso costretti a rimanere sul
balcone, all'esterno, in pieno inverno, con le sole mutandine
addosso.
E' in una situazione come questa che
Mario conosce Francesco, un bambino di 8 anni. Francesco e Mario si
incontrano sul balcone dell'istituto e si riscaldano abbracciandosi
vicendevolmente. La punizione di Mario termina prima di quella di
Francesco e così quest'ultimo è costretto a rimanere da solo al
freddo. Da allora di Francesco non se ne saprà più nulla sino a
che, un anno dopo, il giardiniere ne troverà il cadavere nell'orto,
putrefatto ed irriconoscibile. Un caso che sarà insabbiato per
sempre anche dai carabinieri, per non far ricadere lo scandalo
sull'intero istituto, sovvenzionato dall'OMNI (sic !).
Mario, sarà successivamente trasferito
in un altro istituto, diretto da quella suor Diletta Pagliuca che
finirà in carcere proprio grazie alle denunce di Mario, anni dopo.
Qui i bambini sono spesso legati ai loro letti con dei lucchetti,
costretti a defecarsi ed urinarsi addosso, privi di lenzuola e
coperte.
Con il passare degli anni Mario, da
un'istituto all'altro, da una punizione all'altra come le docce
fredde ed i sassolini sotto alle ginocchia, impara a non fare la spia
e spesso è costretto anche a soccombere agli appetiti sessuali dei
suoi compagni, a mentire, a rubare gli indumenti degli altri come gli
altri rubano i suoi: a prevalere è la legge del più forte, la legge
della giungla.
E' così che tenterà il suicidio
all'età di dodici anni e sarà trasferito alla Neuro, ovvero
l'anticamera del manicomio.
Isolandosi sempre di più, Mario, ad
ogni modo, scoprirà l'interesse per la lettura: dai fumetti passa a
letture impegnate come Balzac, Kafka, Proust, Flaubert, Boudelaire,
Dumas, Stevenson, Jack London, Palazzeschi, Moravia e Marinetti. E
poi alla passione per l'ascolto della musica classica, in particolare
di Beethoven.
Il suo è un modo per emanciparsi, per
elevarsi da quella vita di dolore e vessazioni. Ma ci sarà spazio
anche per l'amore. Amore omosessuale per un suo compagno, Cesare, che
Mario descrive teneramente nel suo libro e che deve essere “nascosto”
perché i costumi ipocriti dell'epoca – impregnati di bigotto
cattolicesimo - impongono che sia così, sia per gli omosessuali, ma
anche per gli eterosessuali.
Mario trova tutto ciò assurdo, così
come è assurdo il comportamento delle suore e dei preti degli
orfanotrofi. E' un comportamento che stride con il messaggio di
Cristo, che Mario ama moltissimo ed infatti egli scrive: “L'idea
del Cristo che è morto per noi, nella sua infinita bontà, mi
esalta, mi affascina, mi turba. Ma tutto viene spazzato via (…) da
questa cerimonia stucchevole, da questa finzione”. Ed ancora Mario
ricorda che il Cristo diceva “Amatevi come fratelli”. Cosa che di
rado accade negli orfanotrofi...
Mario ritiene poi – come sostenevano
anche gli intellettuali omosessuali Dario Bellezza e Massimo Consoli
- che l'omosessualità negli orfanotrofi sia spesso una conseguenza
della natura sessuofoba della nostra società, che rende estremamente
difficili i rapporti fra un ragazzo ed una ragazza. Aspetto appunto
tipico delle comunità ristrette come gli orfanotrofi, che sono delle
comunità omosessuali per eccellenza in quanto composte da persone
dello stesso sesso.
Nel momento in cui avrà modo di
prestare servizio volontario presso la Croce Rossa, Mario avrà
quindi anche la possibilità di uscire dall'istituto nel quale è
recluso. E si innamorerà di Katia, che purtuttavia scoprirà essere
una prostituta e ciò lo deluderà moltissimo.
Nel frattempo finirà anche in galera,
accusato di un furto che non aveva mai commesso in realtà e, una
volta uscito, per mantenersi, assieme ad un suo ex compagno di
collegio, inizierà a prostituirsi, ma finirà in galera ancora
allorquando deciderà di tenersi una tessera appartenente ad un
componente della Guardia di Finanza che aveva trovato a terra, solo
per non pagare il cinema e che la polizia gli troverà addosso.
Curioso a dirsi, ma Mario scoprirà
persino di avere un fratellastro, Giulio, il quale tenterà di
metterlo in contatto con il patrigno, che purtuttavia lo rifiuterà e
con la madre, Tina, che per la prima volta Mario incontrerà al
Policlinico, al capezzale della sorellastra quattordicenne, la quale
aveva appena tentato il suicidio. Ma, fondamentalmente, rimarrà
deluso nell'apprendere che lei l'aveva abbandonato e che lo Stato
italiano, anziché fornire un assegno mensile alla madre per il suo
mantenimento, ha preferito affidarlo agli istituti dell'OMNI.
Solo l'incontro con Don Mario Picchi,
che dirige il Centro Italiano di Solidarietà, gli permetterà di
avere una sistemazione degna di questo nome e sarà proprio questo
buon prete che lo esorterà a scrivere, appunto, la sua storia.
Mario, come scrive all'inizio ed alla
fine di “Un ragazzo all'inferno”, è disilluso. Non pensa che il
racconto della sua storia serva a qualcuno ed invece... Ed invece,
grazie a Marco Pannella ed al Partito Radicale nel quale il giovane
Mario militerà per alcuni anni, le cose inizieranno presto a
cambiare, per quanto concerne gli istituti, gli orfanotrofi, i
brefotrofi e parecchie persone saranno portate alla sbarra, fra cui
la terribile suor Diletta Pagliuca.
Mario Appignani, nel corso degli Anni
'70, grazie alla sua “cultura stramba”, come amava definirla, fu
anche rappresentante degli Indiani Metropolitani, un gruppo
libertario che, in Italia, si ispirò alla Beat Generation di Kerouac
e Ginsberg e la sua vicenda politica e controculturale è raccontata
da un suo compagno di militanza – Marco Erler – nel saggio
“Assalto alla diligenza. Quando Appignani rinacque Cavallo Pazzo”
edito da Memori alcuni anni fa.
Come Marco Erler, penso anch'io che la
vicenda di Mario Appignani non vada dimenticata.
E penso che anche le sue scorribande
televisive, negli Anni '90, pochi anni prima di morire, siano
emblematiche. Era il suo modo goliardico ed irriverente per
denunciare la società dello spettacolo e dei media, retti dall'uomo
simbolo di una DC che pur stava tramontando per lasciare spazio alla
sua continuità inculturale, ovvero al berlusconismo: Pippo Baudo.
Oggi i tempi sono per molti versi
cambiati, ma penso che “Un ragazzo all'inferno”, di cui saranno
anche scaduti i diritti editoriale da tempo, dovrebbe essere
ripubblicato, a beneficio dei più e dei meno giovani. Affinché
sappiano che cosa accadeva agli emarginati, appena quarant'anni fa in
Italia. Affinché ciò non accada mai più, perché non c'è peggior
olocausto, non c'è peggior genocidio di quello compiuto da uno Stato
che si autoproclama “democratico” o “repubblicano” e nei
fatti non lo è.
Uno Stato, quello italiano che, ad ogni
modo, i poveri e gli emarginati – tanto cari a Pasolini ma non alle
destre ed alle sinistre - non li ha mai potuti sopportare.
E che, grazie ad Appignani,
intellettuale e politico autodidatta che sulla sua pelle e sulla sua
anima ha pagato un prezzo altissimo, hanno avuto, per una volta, una
pur timida voce.
Luca Bagatin